1830
Vasile Cârlova
Ruinurile Tîrgoviştii [Le rovine di Tîrgoviste]
O, avvilite mura! O, glorioso monumento!
Di qual superba nobiltà anche voi avete brillato,
Mentre un sole dolce ancor più lieto
La sua luce riversava su questa terra schiava!
Ma infine Saturno, come dall’alto gli è stato dato,
Nella nebbia dell’oblio senza indugio vi ha sottomesso.
Quale dolore vi coglie. Come tutto è scomparso!
Sotto la condanna della sorte del tutto siete offuscate!
Della gloria avita niente a voi è rimasto.
Ovunque non si vede l’orma di un passo.
E mentre un tempo ogni mortale
Voi guardava con desio, con sguardo immoto,
Ora per il gran terrore si ritrae
Come il suo sguardo su di voi cade…
Ma ancora, afflitte mura, avete un che di ameno,
Quando l’occhio vi guarda nell’ora quieta:
Dalla pietà è trafitto, dai pensieri è stupito.
Voi ancora in vita qual esempio ci servite
Come dell’umanità le gesta più gloriose
e dal fondo saldo dalla terra si dileguano;
Come tutto qual orma che precede venga meno,
E sulle ali del tempo più non appaia;
Come l’uomo, per quanto sia in tutto compiuto,
A sorpresa cada o si dilegui infine.
Io solo, in verità, di più esulto
A guardare assorto la vostra rovina
Che superbi edifici, vetusti palazzi,
Con molta gloria, ma senza utile alcuno.
E proprio come il pastore che attraversa le pianure,
Al riparo fugge quando vede la tempesta,
Così ora io, nella tormenta del dolore,
Presso di voi a lenimento con cupi pensieri vengo:
Né alle muse canto, né pietà dal cielo voglio,
Una patria di pianger chiedo con molto affanno.
Presso di voi, presso di voi speranza d’aiuto io trovo;
Voi di parole e idee siete fonte.
Quando il fragore del giorno ovunque cessa,
Quando la notte, l’atmosfera del tutto s’oscura,
Quando l’uomo da sventure, da fatiche spossato
Nella quiete della notte si scopre addormentato,
Io neppure allora dai pensieri trovando riposo,
Presso di voi senza pudore solo a pianger vengo
E animato dalla vostra triste visione
La nostra funesta sorte senza requie scopro.
Mi vedo presso il sepolcro della gloria avita
E sento un lamento di vicende umane;
E mi sembra ancor di udire una voce pietosa
Che dice queste parole: “Cosa, ahimè! è ancor rimasto,
Quando la gloria più grande come ombra è passata
Quando lo spirito più libero con essa è caduto.”
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Questa triste voce, o rovine, mi ha trafitto
E a insultare la vita mi ha spinto.
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Quindi accettate, o rovine, per quanta terra vedrò,
Che io venga a conforto, a piangere su questo sepolcro,
Dove il tiranno ancora un passo non ha osato,
Poiché nel vedervi si sente sgomento.
(V. Cârlova, Ruinurile Tîrgoviştii, înV. Muşat, Vasile Cârlova, Albatros, Bucureşti, 1981, pp. 125-126)
Iancu Văcărescu
O zi şi o noapte de primăvară la Văcăreşti sau Primăvara amorului
[Un giorno e una notte di primavera a Văcăreşti o La primavera dell’amore]
Non sfuggirò, in petto reco nostalgia
Oltre i fiumi, oltre i monti;
Vedo che oltre i mari Amore,
Quando vuol getta i suoi ponti.
Sui Carpazi ho portato la mia tristezza,
A loro ho voluto consacrarla;
L’eco, la fronda, la valle,
I fiumi la moltiplicano!
Mille ostacoli, mille trappole
Oltre modo tutte ha teso,
Lacrime invano sono scivolate:
Ovunque andrò io sono preso.
La mia cetra abbandonata
Di Aracne ora guerra,
Dalla mia maledizione colpita,
Riappacificarmi con lei voglio.
Ora comprendo che sua
Non è la colpa, la cagione,
Quando per ciò che volevo che mi dicesse
Corda, corda si spezzava.
Il vostro dono è, o Muse,
La cetra che ho osato
Gettar via, poiché non poté
Non farmi vergognare.
Poiché realizzare avevo visto
Molto facilmente altri desideri,
Allo strumento avevo chiesto
Cosa difficile per tutti i desideri.
Neppure Apollo si cimenta,
Il più alto dei cantori,
In quel canto ché mi tende,
Corde e versando sudori,
A cantar a sufficienza tutte
Le armi che mi uccidono,
Nessuno riesce;
Testimone mi è lo stesso Amore.
Egli, che dell’arma della bellezza
Di Venere si prende gioco,
Che le frecce ardite
Di Diana, prende con la faretra
Ad Apollo, quando vuole spezza
Lo strumento più amato;
La spada piena di sangue
Di Marte ha sottomesso.
Bacco, allo scettro si inchina;
Cerere, Pan, Fauni, creature silvestri
Perché non trovi in loro colpa
Per lui lavorano dì, notte, anni.
Altri fuggono dall’egida
Di Minerva, e a lui si sottomettono;
Altro tridente ha a dispetto
Del tridente di Nettuno;
Lo scettro arrugginito ruba
A Plutone quando vuole;
E anche a Giove giura
Che dalle mani la saetta prenderà.
Quale potere, quali armi,
Quali ali, quale pensiero,
Desti, quando egli dorme,
Possono far tutto, volendo.
Superbia, pericolo,
Paura, timore, sventura,
Tempo, assenza, fatica,
Contro di lui non hanno coraggio.
Il mondo qual padrone lo riconosce
Tutto a lui si sacrifica.
Perisce fra l’ira
Chi si gli oppone.
Egli è in fondo al mare,
In cielo, in terra, nel vento,
Sulla volontà, ragione, età, censo
Monarca imposto con una parola.
Ma una giovane fanciulla
Fra i rumeni è apparsa,
Per ridere della sua forza,
In un modo singolare.
Ha contro di lui armi
Che la vista appannano,
E con un fascino dolce
Anche Amore sconfiggono.
Egli, nel gran dominio
Che solo aveva su tutto,
Non ha trovato forze in natura
Che possano quanto queste.
Prima che gli sia nota
Quale trama esse hanno
La sua temerarietà è finita,
Frecce, archi, giacciono spezzati.
In gran disperazione
Vedendosi d’un tratto precipitato
Fugge da più malvagia morte
Cercando il luogo più nascosto.
Si stende una pianura
Alle falde dei Carpazi.
Campo aperto di gesta eroiche
Presso i rumeni famosi;
Rovine sono da una parte,
Di una città che ha dominato;
Al di qua un ruscello divide
Un boschetto assai ameno.
Là io ho una casina
Su una cresta di collina;
Nella sua valle scorre un torrentello
Che mormora pian pianino.
Di fronte variegate
Altre colline si vedono,
E nelle vallette fiorite
Agnelli pascono, corrono, giocano, stanno.
Lasciando del gran mondo
Onori, speranze e sterili infatuazioni,
Illusioni certe,
Caldi nemici, freddi amici;
Là dal benessere
Dal riposo accompagnato,
Tutta la bontà della vita
Conquistavo io in gran copia.
Quando nella vigna, nel giardino,
Quando nei campi spesso,
Con poca fatica
Esempio davo ai lavoratori.
Quando con reti ingannatrici
Vivi prendevo uccelli in volo;
Quando con canne fulminanti,
Con piombo li scagliavo assassino.
Quando con i cani nel bosco
La volpe, la lepre timorosa,
Il lupo uso a rubare
Ferivo più del dovuto.
Molti stanavo dal rifugio
Che hanno nel fondo dell’acqua;
Quanti, dando credito all’inganno,
Gli ami senza sforzo carpiscono.
Fatica, lotta, cavalcata,
Giochi, passeggiate,
Mi rinvigorivano con letizia,
E mi davano palese beneficio.
La sobrietà e la misura
La mia tavola ornavano,
Appagavano stomaco, occhi, bocca;
Ma a mala pena mi saziavano.
Le muse, che assai mi sono care,
L’ora avevano deciso,
Quando con coloro che morte non hanno
Senza indugio mi incontravo.
Con la loro indicibile dolcezza
I sensi mi esacerbavano;
Mano, spirito, occhi, lingua, vita
Ogni cosa mi animavano.
Allora con fiducia
Scoprivo un’esistenza migliore;
Nella cui attesa
Il male, gli uomini sottomettono.
Con cura guardando la natura
Pianeti, oriente, occidente,
Intanto pensavo: Una tale creatura
Chi la starà muovendo dall’alto?!
Quanta gloria si deve
A uno come Lui, la concedevo!
E rallegrandomi fra me
Andavo a coricarmi
Una notte così dormendo
Il primo sonno, da circa un’ora;
Mi sveglio, percepisco sussurri,
Sento che è voce di fanciullo.
Urlando chiedo: “- Chi è?
Chi si è intrufolato qui?
Chi di nascosto qui
Ha osato entrare?”
Guardo!… Cosa vedo, Prodigio!
Assai strano un fanciullino
Timoroso chiede perdono,
Mi prega di darli rifugio.
Sulle spalle gli vedo ali strappate,
Bel portamento, sebbene lacero;
Lui pronto a parlarmi molto,
Io dal sonno schiacciato,
“Lascia perdere – gli dico – parleremo domani,
Adesso coricati se vuoi,
Se hai fame, ecco pane,
Acqua, vino se ne vuoi bere”.
– “Caro mio! Di tutto questo –
Dice lui – ti ringrazio;
Vedo che hai sonno; ma, se si può,
Comunque ti parlerei.
Quanto sia piccolo, vedi bene,
Né bevo, né mangio, né dormo,
E quelli che sono con me
Assai poco dormono.
Il sonno, a coloro che piace,
È nemico assassino,
Lui li fa giacere in eterno
E per troppa vita muoiono.
Io con piacere
Posso tenerti sempre sveglio;
E ogni cosa vuoi ti do senza chiedere
Non attendo che tu preghi molto”.
Parlando non so quali malie compia,
Il sonno vedo che è scomparso;
Da che dormivo in pace,
Mi son ritrovato vestito.
Tutto verso di lui, nolente, mi spinge
Un forte non so che!
Che del mio quieto destino
Il filo, quando egli giunse, tagliò.
Guarda gentile, mi sorride,
Mi piace, lo amo molto.
Con mitezza egli parla
E vorrei per sempre ascoltarlo.
Dice: –“Qui non è luogo
Dove io ti possa dire
Chi sono, a quale sorte
Mi feci sottomettere”.
Per benino mi prende per mano,
E in un attimo mi trovo io
Nel boschetto, dove una fontana
Scorrendo forma un lago.
Sull’onda quieta di quello
Stando della notte la fiamma,
Incerta luce emanava
Dal suo specchio facendo ritorno.
In cielo migliaia di stelle
Disseminate brillavano;
Nei campi fuochi di sterpi
Lontano fiammeggiavano.
Brillante scorreva orgoglioso
Il vivace sussurro della fontana;
Un silenzio, un bagliore
Tutt’intorno dominavano.
Alla natura, la voce del canoro
Soave, dolce usignolo,
Raccontava il ritorno della verzura,
E della luce dietro le nubi.
Poi la nostalgia gli tornava in mente,
Lui per la tristezza si spezzava,
Sebbene non parlasse, diceva parole
Che i sensi toccavano.
Bruciava nel dire la sua afflizione
Sotto di lui un albero fitto
Che dall’alto dominava il boschetto
Ci ha sostenuto nel sederci.
Lui questo luogo, e il tempo sceglie,
Così incominciando parlò:
“ – Perché è la più antica legge
In terra come in cielo, saprai,
Con piaceri, o con dolore
Quanto vive, voglia, non voglia,
Presto, o tardi
Sarà dominato dall’Amore.
Amore che gli dei,
Lodano come Dio
Che ammansisce le tigri, i leoni,
E innalza l’uomo, sono io.”
Quante vittorie ha conseguito,
Quanti scherzi, a chi, mi ha detto;
Come Giove assume sembianze;
Ercole come fila.
“ – Gloria – dice – nessuna gloria
Era abbastanza per me,
Il mio prode braccio, dall’offesa,
Ovunque mi difendeva.
E ora senza accorgermene
Io d’un tratto senza mai,
Tendere il mio arco,
Fuggiasco mi son trovato in strada.
Assai grande è stato lo scherzo
E affatto inaspettato;
Di nascosto la sorte infida
Ha tramato la mia scomparsa.
Della forza compimento,
Le bellezze appieno,
Gran virtù hanno raccolto esercito,
E per quanto dicessi, poco direi.
Assieme ogni grazia cresce,
Sedici piccoli anni,
E nella fanciulla raffigura
Saetta di vincitore!
Proprio in questa terra
Che sapevo completamente mia,
Di un tale amaro accadimento
Io non potevo aver timore.
Indifeso, impreparato,
Alle armi neppur pensando più,
Colmo di risa, d’amore,
Nel venire presso i miei sudditi.
Scorgo, vedo una tale fanciulla,
A stento le sembianze ho notato,
Quando mi trovo senza pietà
Tutto d’un tratto disarmato
La sorte pensava di poter,
Con le sue trame,
Aggiogarmi in eterno sotto la ruota;
A stento mi son liberato fuggendo.
Attraverso i boschi impaurito,
Fuggo, sto, guardo, ascolto;
Ho paura se una foglia cade;
Fitti spini mi hanno strappato.
Quando mi sembrava quasi
Che il nemico mi ha raggiunto,
Non volando, spesso in fossi
Saltando, cadevo distrutto.
La tua buona accoglienza
Di essere sfuggito mi ha assicurato,
E del suo reato
Che altri non è colpevole.
Volerei se fossi in grado,
Da mia madre, dagli dei;
Per la vergogna mi sembra
Che non li vedrò più.
La vendetta mi accende
Tizzone ardente in petto,
E stupore mi coglie,
Io tanto, cosa mi attendo ancora!
La mia sconfitta in fretta
Ha potuto indebolirmi;
Ma dallo stato più debole
In un battibaleno posso rafforzarmi.
Ora voglio che sia evidente
Se io ho potere o no,
O sono le leggi mutate
Come volle la sorte.”
Fa pochi movimenti,
È fermo, e lo vedo rimuoversi,
Filomela allora, quando tace,
Quando di nuovo si ode cantare.
Ella percepisce per prima la sua forza
E con voce suadente
A tutti gli astanti
Dice del suo dolce amor.
A lei mille uccellini
Si uniscono nel concerto;
E d’un tratto luna, stelle,
Del tutto il volto perdono nel biancore.
Salta in su, accanto ai fuochi,
Viandante e pastorello;
Risuona in molti luoghi
Del flauto dolce la voce.
Tutto si desta, sente, chiede
Il magnete animato
Che vuole che nell’unione
L’anima sia duplicata.
Si destano le coppie
All’amore per levar gloria;
Per piangere quelle sole, separate,
La più triste nostalgia.
L’aurora cala
Dalle braccia di Titone
Allegra e rubizza
Senza timore di voce alcuna.
Sulla sua strada disseminata
Di rose vive in volto
Viene, porte apre senza indugio
Al mattino ridente.
I suoi fuochi spande
La notte a loro sottomettendosi,
Le nubi tutte trasforma in oro
La vita della natura rinnovando
Le gocciole di rugiada
Che sull’erba brillano
Al campo danno nuovo smalto,
I fiori lo rallegrano.
Con profumi moltiplicati
Lenimento vivo da esse venendo
Zefiro aliti dolci invia
Qua e là trastullandosi.
L’aratore che costringe
I suoi grassi buoi al passo
Nel cantare dice ciò che desidera
Alta risuona la sua voce
Ameni belati di greggi,
L’aer empion tutto;
Tori pesanti sulle loro orme
Gravi muggiti traggono.
La puledra da un’altra parte
A loro risponde nitrendo;
Eco prolungando in parte,
La sua voce sempre innalzando.
Allo sguardo appaiono ammucchiati
Torri, case, vigne, giardini.
Verdi monti, monti di neve
Ricolmi di licore.
Nel portare l’acqua cantano fanciulle.
Più in là presso le pecore,
Dicono, come loro pastorelle
Che è meglio esser in due.
Eco con molta cura
Il loro canto ricantando,
Ai sensi reca amore
E consola ogni pensiero.
Le rondini in volo si incrociano,
Con un’ala raspano
L’onda, che fredda versano sul corpo,
Rinfrescate prendon vigore.
Fa mille farfalle volare,
Come vuole venticello lieve;
Api fanno di fiore in fiore
Un furtarello innnocente.
Si leva con orgoglio
Il sole a levante,
Tutte le cose a lui con gioia
Là per là riverenze volgono.
Nell’armonia indicibile
In un accordo all’unisono;
La natura in moto è messa;
Ogni tono risuona amor!!
Allargati son i miei sensi
Ora sento distintamente,
Nel sentir vedo la differenza
Fra sentir e sentir
Il mio sangue si rinnova,
Le facoltà si liberano,
Ogni voce a me parla,
Ogni tono io comprendo.
Le vene veloci pulsano,
Alla natura voglio dar risposta,
Ai sensi levati
La mia voce non basta,
Ma il mio cuore è schiuso
E dentro di lui [ho] visto,
Dice con un discorso muto
Che ciò che sento molto mi piace!
Giungo acquietato,
Di piacere ubriacato
Quando d’Amore con un sorriso
Come da un sogno son destato.
“ – Ragazzo caro! – mi dice,
Basta, ti conosco ora;
Di te or felice,
Or procedi sulla mia strada!
Procedi con fermezza,
Sopporta tutto con forza
E qualsiasi cosa tu viva
Non esser disperato!
Ciò che hai più caro, sacro, grande
Legami umani:
Pensieri, idee, fiducia,
Tutto a me immola!”
(Iancu Văcărescu, O zi şi o noapte de primăvară la Văcăreşti sau Primăvara amorului, in Id., Opere, Ediţie critică, studiu introductiv, note, glosar, bibliografie şi indice de C. Cîrstoiu, Minerva, Bucureşti, 1985, pp. 103-120)