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Cronologia della Letteratura Rumena - UniFI
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1840

Documento senza titolo

Costache Negruzzi
Alexandru Lăpuşneanul (1564-1569)

I

Anche se voi non mi volete, io vi voglio…

 

Iacov Eraclit, soprannominato il Despota, era stato ucciso dalla mazza di Ştefan Tomşă che ora governava il paese, ma Alexandru Lăpuşneanul, dopo essere stato sconfitto due volte dall’esercito del Despota, fuggendo a Costantinopoli, era riuscito ad ottenere un esercito turco e ritornava ora a scacciare l’usurpatore Tomşa e riprendersi il trono, che non avrebbe perduto, se non fosse stato tradito dai boiari. Era entrato in Moldavia con settemila spahii e con circa tremila mercenari. Inoltre aveva ordini imperiali verso il can dei tartari Nogai perché lo aiutasse con quanti soldati gli avesse chiesto.
Lăpuşneanul aveva accanto il vornic Bogdan, entrambi a cavallo di stalloni turchi e armati dalla testa ai piedi.
– Che ne pensi, Bogdan, disse dopo un breve silenzio, ci riusciremo?
– Non dubitare, signore, rispose il cortigiano, il paese geme sotto l’oppressione di Tomßa. L’esercito tutto si sottometterà non appena gli si prometterà maggiore paga. I boiari, quelli che sono stati risparmiati, solo la paura della morte li trattiene, ma come vedranno la tua signoria venire in forze, subito accorreranno e lo abbandoneranno.
– Dio voglia che io non abbia bisogno di fare quello che ha detto Mircea-vodă ai munteni; ma te l’ho già detto, io conosco i nostri boiari, perché ho vissuto con loro.
– Questo spetta alla saggezza di tua signoria.
Parlando così arrivarono in prossimità di Tecuci, dove sostarono in un boschetto.
– Signore, disse un paggio avvicinandosi, alcuni boiari giunti ora chiedono il permesso di avvicinarsi a tua signoria.
– vengano, rispose Alexandru.
Di lì a poco entrarono nella tenda dove egli sedeva attorniato dai suoi boiari e dai suoi capitani, quattro boiari, di cui due piuttosto anziani, e due giovani. Questi erano il vornic Moţoc, il postelnic Veveriţă, lo spătar Spancioc e Stroici.
Avvicinandosi ad Alexandru-vodă, si inchinarono fino a terra, senza baciargli il lembo della veste, secondo il cerimoniale.
– Benvenuti, boiari! Disse sforzandosi di sorridere.
– Salute a tua signoria, risposero i boiari.
– Ho sentito parlare, continuò Alexandru, dei malanni che affliggono questo paese e sono venuto a salvarlo; so che il paese mi aspetta con gioia.
– Non preoccuparti, signore, disse Moţoc, il paese è tranquillo e forse tua signoria ha sentito cose come in realtà non sono; poiché questa è l’abitudine della nostra gente, fare di ogni fuscello una trave. Per questo il consiglio ci ha mandato a dirti che il popolo non ti vuole, né ti ama e che signore, torna indietro, se no…
– Anche se voi non mi volete, io vi voglio, rispose Lăpuşneanul, i cui occhi scintillavano come saette, e anche se voi non mi amate, io amo voi e proseguirò con o senza il vostro volere.
Tornare indietro? È più facile che il Danubio inverta il suo corso. Ah! Non mi vuole il paese? Non mi volete voi, da quello che intendo?
– Ambasciator non porta pena, disse Spancioc; noi siamo obbligati a dirti la verità. I boiari sono decisi a rifugiarsi dagli ungheresi, dai polacchi e dai munteni, dove tutti hanno parenti e amici. Verranno con eserciti stranieri e povero paese quando avremo guerre tra noi e forse anche per la tua signoria non andrà bene, perché il principe Ştefan Tomşa…
– Tomşa! Lui ti ha insegnato a parlare con tanto ardire? Non so chi mi trattiene dal farti saltare i denti in bocca con questa mazza, disse afferrando la mazza ferrata dalle mani di Bogdan. Quel miserabile di Tomşa vi ha insegnato…?
– Miserabile non può essere colui che si è reso degno di chiamarsi l’unto del Signore, disse Veveriţă.
– E forse non sono anch’io l’unto del Signore? Forse non avete giurato anche a me fedeltà, quando ero solamente lo stolnic Petre? Non mi avete eletto voi? Come è stato il mio governo? Quale sangue ho versato? Chi è tornato dalla mia porta senza ottenere giustizia e conforto? E tuttavia, ora non mi volete, non mi amate? Ha! Ha! Ha!
Rideva; i muscoli gli si contorcevano in questo riso e le palpebre battevano.
– Col permesso di tua signoria, disse Stroici, vediamo che la nostra patria sarà di nuovo calpestata dai pagani. Quando un’orda di turchi avrà saccheggiato e devastato il paese, tu su cosa regnerai?
– E con cosa sazierai la cupidigia di queste orde di pagani che porti con te? Aggiunse Spancioc.
– Con le vostre ricchezze, non con i soldi dei contadini che voi spogliate. Voi mungete il latte del paese, ma è venuto il tempo che anch’io munga voi. Basta così boiari! Tornate e dite a chi vi ha mandato, di guardarsi dall’incontrarmi se non vuole ch’io faccio pifferi delle sue ossa e della sua pelle fodere per miei tamburi.
I boiari uscirono scuri in volto; Moţoc rimase.
– Perché sei rimasto? Chiese Lăpuşneanul.
– Signore, Signore! Disse Moţoc, cadendo in ginocchio, non ci punire per le nostre infedeltà. Ricordati che sei di questo paese, ricordati di ciò che dicono le Sacre Scritture e perdona chi ti ha offeso. Risparmia il povero paese. Signore! Sciogli questo esercito di pagani; vieni solo con quanti moldavi hai con te e noi garantiamo che non un capello sarà torto a tua altezza; e se sarà necessario un esercito ci armeremo con donne e bambini, solleveremo il paese, i servi e i nostri vicini. Fidati di noi!
– Fidarmi di voi? Disse Lăpuşneanul intendendo il suo piano. Probabilmente pensi che io non conosca il proverbio moldavo: “Il lupo perde il pelo ma non il vizio”? Forse io non conosco voi e soprattutto te? Forse non so che mentre eri il comandante supremo del mio esercito, non appena hai visto che mi avevano sconfitto, mi hai abbandonato? Veveriţă è un mio vecchio nemico, ma non lo ha mai nascosto. Spancioc è ancora giovane, nel suo cuore non c’è amore per la patria; mi piace guardare la sua alterigia, che non si sforza di nascondere. Stroici è un ragazzo, che non conosce ancora gli uomini, non sa che cosa siano l’adulazione e la menzogna; a lui pare oro tutto quello che riluce. Ma tu, Moţoc? Invecchiato nella cattiveria, disposto a venderti a qualunque principe, hai tradito Despot, hai tradito anche me, tradirai anche Tomßa; dimmi, non sarei un fior di stolto, se mi fidassi di te? Io tuttavia ti perdono, per aver osato pensare che avrei potuto ingannarmi ancora e ti prometto che la mia spada non si macchierà del tuo sangue; ti risparmierò perché sei utile, a liberarmi dalle maledizioni del popolo. Ci sono altri fuchi da cui bisogna pulire l’alveare.
Moţoc gli baciò la mano, come il cane che, invece di mordere, lecca la mano che lo percuote. Egli era contento della promessa che aveva ottenuto; sapeva che Alexandru-vodă avrebbe avuto bisogno di un intrigante come lui. I delegati avevano avuto istruzioni da Tomşa, nel caso non avessero potuto far cambiare parere a Lăpuşneanul, di proseguire il cammino per Costantinopoli, dove, con doni e offerte in denaro, ottenere la sua deposizione. Ma vedendo che egli stesso veniva con l’accordo della Porta e d’altra parte, temendo di ritornare da Tomşa senza nessun risultato, chiesero il permesso di rimanere per accompagnarlo. Questo era il piano di Moţoc per riuscire a restare con Lăpuşneanul. Il permesso fu dato loro.

 

II

Dovrai rendere conto, Principessa…

Tomßa, non sentendosi in grado di opporsi, era fuggito in Valacchia e Lăpuşneanul non aveva incontrato alcun ostacolo nel suo cammino. Il popolo ovunque lo accoglieva con gioia e speranza, ricordandosi del suo primo regno, in cui egli non aveva avuto il tempo di manifestare il suo caratteraccio. I boiari invece tremavano. Essi avevano due buone ragioni per essere preoccupati: sapevano che il popolo li odiava e che il principe non li amava.
Appena arrivato, Lăpuşneanul ordinò di riempire di legna tutte le fortezze della Moldavia, esclusa Hotin e le bruciò, volendo distruggere così l’asilo degli scontenti, che spesso, al riparo di queste mura tramavano complotti e sobillavano alla rivolta. Per mettere fine all’influenza dei boiari e per sterminare i nidi della feudalità, li spogliava degli averi con ogni sorta di pretesto, privandoli in questo modo del solo mezzo con cui potevano abbindolare e corrompere il popolo.
Ma non ritenendo sufficiente questo piano, ogni tanto ne uccideva qualcuno. Al più piccolo errore, alla più piccola lagnanza che gli si presentava, la testa del colpevole veniva appesa alla porta della corte, con un messaggio che informava del suo reato, vero o inventato, on faceva in tempo ad imputridire, che un’altra testa la sostituiva.
Nessuno osava parlare contro di lui, tanto meno ordire qualcosa. Un corpo numeroso di mercenari albanesi, serbi, ungheresi, scacciati per i loro delitti, trovarono scampo presso Alexandru, che, pagandoli bene, li teneva soggiogati; mentre teneva ai confini le truppe moldave sotto capitani sue creature, di modo che congedando i soldati, le aveva ridotte ad un piccolo numero.
Un giorno passeggiava da solo nella sala del palazzo. Aveva avuto un lungo colloquio con Moţoc, che era nuovamente nelle sue grazie e che usciva dopo avergli presentato il progetto di una nuova tassa. Sembrava inquieto, parlava da solo e si intuiva che meditava qualche nuova rovina, qualche nuovo danno, quando una porta laterale aprendosi, lasciò passare la principessa Ruxanda.
Alla morte di suo padre, il buon Petru Rareş, che – dicono le cronache – con gran dolore e afflizione di tutti fu sepolto nel santo monastero di Probota, da lui edificato, Ruxanda era rimasta in tenera età, sotto la tutela dei suoi due fratelli più grandi, Iliaş e Ştefan. Iliaş, ereditando il trono di suo padre, dopo un regno breve e sfrenato, andò a Costantinopoli, dove abbracciò la religione musulmana e al suo posto salì al trono Ştefan. Questi fu peggiore di suo fratello; cominciò a costringere gli stranieri e i cattolici a rinnegare la loro fede e molte famiglie agiate che si erano stabilite nel paese se ne andarono per questo motivo, causando l’impoverimento della terra e il crollo del commercio. I boiari che, per la maggior parte, erano imparentati con i polacchi e con gli ungheresi, si risentirono e d’accordo con i boiari esuli, decisero la sua fine. Forse avrebbero tardato a mettere in atto il piano, se la sua sfrenatezza non lo avesse accelerato. “Non sfuggiva alla su malvagità nessuna nobildonna, se era bella”, dive il cronista nella sua ingenuità. Un giorno, mentre si trovava a Ţuţora, senza aspettare più l’arrivo dei boiari in esilio, i boiari che erano con lui, per non farselo sfuggire, tagliarono le corde della sua tenda in cui stava e, assalendolo, lo uccisero.
Ora solo Ruxanda della famiglia di Petru Rareş era rimasta e i boiari assassini la destinarono ad andare sposa ad un tale di nome Jolde, che essi avevano eletto a regnare. Ma Lăpuşneanul, eletto dai boiari esuli, affrontando Jolde, lo vinse e catturandolo gli tagliò il naso e lo mandò in convento; e per ingraziarsi il cuore del popolo in cui era ancora vivo il ricordo di Rareş, prese in sposa sua figlia.
In questo modo la leggiadra Ruxanda era giunta ad appartenere al vincitore.
Quando entrò nella sala, ella era vestita con tutta la pompa che si conviene ad una sposa, figlia e sorella di sovrano.
Sopra l’abito di stoffa dorata, portava un mantello di velluto celeste bordato di ermellino, le cui maniche pendevano dietro; le cingeva la vita una fascia d’oro che si chiudeva con grandi borchie di diaspro, circondate di pietre preziose, e dal suo collo pendeva una collana di molti fili di perle. Il berretto di zibellino portato da un lato era ornato da un velo bianco e fissato con un grande fiore di smeraldi. I suoi capelli, secondo il costume di allora, si dividevano sciolti sugli omeri e sulle spalle. La sua figura aveva quella bellezza che rendeva una volta famose le donne di Romania e che si trova raramente ora, a causa della mescolanza con le nazioni straniere. Ella però era triste e illanguidita come il fiore esposto all’arsura del sole che non ha nulla che gli faccia ombra. Aveva visto morire i suoi genitori, aveva visto un fratello rinnegare la propria fede e l’altro ucciso; e prima costretta dalla dieta ad essere la sposa di Jolde (che neppure conosceva), ora era stata costretta dalla stessa dieta, che disponeva del suo cuore senza interpellarla a dare la mano ad Alexandru-vodă; e lo avrebbe onorato e gli avrebbe obbedito come ad un marito, avrebbe voluto amarlo, se avesse scorto in lui un benché minimo cenno di umanità.
Avvicinandosi, si inchinò e gli baciò la mano. Lăpuşneanul la prese per la vita, e alzandola come una piuma, la pose sulle sue ginocchia.
Quali nuove, mia bella signora? disse egli baciandola sulla fronte; che cosa ti ha spinto oggi, che non è giorno di festa, a lasciare il fuso? chi ti ha destata così di buon ora?
– Le lacrime delle nobildonne vedove che sono versate alla mia porta e che chiedono vendetta a Cristo Signore e alla Sua Santa Madre, per il sangue che stai versando.
Lăpuşneanul rabbuiandosi, sciolse le braccia; Ruxanda cadde ai suoi piedi.
– O, mio buon signore! Mio valoroso sposo! seguitò ella, basta! Basta tanto sangue versato, tante vedovanze, tanti orfani. Pensa che tu sei tanto potente e che dei poveri boiari non possono farti danno. Cosa ti manca? Non sei in guerra con nessuno; il paese è tranquillo e sottomesso. Io, Dio lo sa! Quanto ti amo! E i tuoi figli sono belli e giovani. Ricorda che dopo la vita c’è la morte e che anche tu sei mortale e dovrai rendere conto! Poiché, con i monasteri non si riscatta il sangue, ma piuttosto tenti e affronti Dio, pensando che offrendogli chiese lo puoi placare, e…
– Donna scervellata! Gridò Lăpuşneanul saltando dritto in piedi e la sua mano, nello scatto, si poggiò sul pugnale alla sua cintura; ma subito trattenendosi, si piegò e alzando Ruxanda da terra:
– Mia signora! Le disse, che non ti sfuggano più dalla bocca simili parole folli, perché ti giuro, non so cosa potrebbe accadere. Ringrazia il santo martire Dimitrie sorgente di olio santo, il cui nome si celebra nella chiesa che noi gli abbiamo eretto a Pîngăraţi, che ci ha impedito di commettere un delitto, ricordandoci che sei la madre dei nostri testi.
– Quand’anche sapessi che mi ucciderai, non potrei tacere. Ieri, mentre stavo rientrando, una nobildonna con cinque figli si è gettata davanti alla mia carrozza e mi ha fermata mostrandomi una testa inchiodata sulla porta della corte. “Renderai conto, principessa! Mi ha detto, che lasci tuo marito uccidere genitori, mariti, fratelli… Guarda principessa, questo è mio marito, il padre di questi bambini che sono rimasti orfani! Guarda!” e mi indicava la testa sanguinante e la testa mi guardava terribilmente! Ah! Signore! Da allora vedo continuamente quella testa e ho paura! Non posso riposare.
– E che cosa vuoi? Domandò Lăpuşneanul sorridendo.
– Voglio che non versi più sangue, che smetta di uccidere, che io non veda più teste recise, perché mi si spezza il cuore a tanto dolore.
– Ti prometto che da dopodomani non ne vedrai più, rispose Alexandru-vodă; e domani ti darò una medicina per la paura.
– Come? Cosa vuoi dire?
– Domani vedrai. Ora, cara principessa, va da accudire i bambini e occupati della casa come si conviene ad una buona padrona di casa e disponi che ci preparino un banchetto perché domani offrirò ai boiari un grande pranzo.
La principessa Ruxanda uscì dopo avergli nuovamente baciato la mano. Suo marito la accompagnò fino alla porta.
– Ei! Hai predisposto ogni cosa? chiese, andando in fretta verso il suo scudiero, che era appena entrato.
– Tutto è pronto.
– Ma chissà se verranno?
– Verranno!

 

III

La testa di Moţoc vogliamo…

Dalla sera furono avvisati tutti i boiari di radunarsi l’indomani, essendo festa, nella metropolia, dove ci sarebbe stato anche il principe, per partecipare alla funzione e poi andare al pranzo di corte.
Quando giunse Alexandru-vodă la funzione era cominciata e i boiari erano tutti radunati.
Contrariamente alle sue abitudini, Lăpuşneanul, quel giorno, era vestito con tutta la pompa regale. Portava la corona dei Paleologi e sopra la tunica polacca di velluto rosso vivo, indossava il mantello turco. Non portava armi se non uno stiletto con l’impugnatura d’oro, mentre fra i bottoni del mantello si intravedeva una catena di ferro.
Dopo aver partecipato alla funzione, è sceso dallo scanno, ha pregato davanti alle icone e, avvicinandosi alle reliquie di S. Giovanni il Nuovo, si è inchinato con grande devozione e le ha baciate. Dicono che in quel momento egli fosse pallidissimo in volto e che la bara del santo sarebbe sussultata.
Dopo di ciò, ritornando sullo scanno, si girò verso i boiari dicendo:
– Voi boiari ! Da quando ho ripreso il regno per la seconda volta e fino ad oggi ho mostrato durezza verso molti: mi sono mostrato senza pietà, cattivo, versando il sangue di molti. Dio sa se non mi è dispiaciuto e se non mi pento di ciò; ma voi sapete che mi ha spinto solo il desiderio di vedere cessare le liti e i tradimenti degli uni e degli altri, che miravano alla distruzione del paese e alla mia morte. Oggi le cose stanno diversamente. I boiari hanno capito; hanno visto che non ci può essere gregge senza pastore, perché dice il Salvatore “Percuoterò il pastore e le pecore si disperderanno”.
Boiari! Viviamo in pace d’ora in poi, amandoci come fratelli, perché questo è uno dei dieci comandamenti: ama il prossimo tuo come te stesso e perdoniamoci l’un l’altro, perché siamo mortali, pregando nostro Signore Gesù Cristo – si fece il segno della croce – di perdonare i nostri peccati, come anche noi perdoniamo i nostri debitori.
Finito questo sfrontato discorso, andò in mezzo alla chiesa e dopo essersi nuovamente fatta la croce, si girò verso la folla a destra e a sinistra, dicendo:
– Perdonatemi, buona gente e voi boiari!
– Dio ti perdoni, signore! risposero tutti, tranne due giovani boiari che stavano pensierosi, appoggiati ad una tomba vicino alla porta, senza che alcuno li avesse notati.
– Lăpuşneanul uscì dalla chiesa invitando i boiari a venire per banchettare insieme; e montando a cavallo, tornò a palazzo. Tutti si dispersero.
– Che te ne pare? Disse uno dei due boiari che abbiamo visto non perdonare Alexandru-vodă.
– Ti consiglio di non andare oggi a pranzo da lui, rispose l’altro; e si confusero tra la folla. Questi erano Spancioc e Stroici.
A corte furono fatti grandi preparativi per questo banchetto. Si era sparsa la notizia che il principe si era riconciliato con i boiari; e i boiari si rallegravano di un cambiamento che li faceva sperare di poter occupare di nuovo cariche, per accumulare altre ricchezze col sudore dei contadini. Quanto al popolo, esso era indifferente; da questa pace non si aspettava qualche beneficio, né paventava alcun danno. Il popolo si adattava al governo di Alexandru-vodă; mormorava solo contro Moţoc che usava il credito che aveva presso il principe, per sfruttare il popolo. Perché anche erano continue le denunce della gente per i saccheggi di Moţoc, Lăpuşneanul o non rispondeva, o non le ascoltava.
Avvicinandosi l’ora del pranzo, i boiari cominciarono ad arrivare a cavallo, accompagnati ognuno da due-tre servi. Notavano però che il cortile era pieno di mercenari armati e che quattro cannoni erano puntati verso la porta; ma pensavano che fossero messi lì, come d’abitudine per festeggiare la cerimonia con delle salve. Qualcuno forse sospettava anche qualche tranello, ma una volta entrati non si poteva più tornare indietro; infatti le porte erano sorvegliate da guardie con l’ordine di non lasciare uscire nessuno. Quando i boiari si radunarono, 47 in tetto, Lăpuşneanul si sedette a capotavola, avendo a destra il logofăt Trotuşan e a sinistra il vornic Moţoc. Cominciarono a suonare i pifferi e a portare i cibi in tavola.
In Moldavia, a quel tempo, non era stata introdotta ancora la moda della cucina raffinata. Dopo il borş polacco, venivano le pietanze greche bollite con verdure che galleggiavano nel burro; poi il pilaf turco e, infine, gli arrosti misti. La tela delle tovaglie e dei tovaglioli era leggera e tessuta in casa. I vassoi su cui portavano i cibi, i piatti e i bicchieri erano d’argento. Lungo le pareti stavano allineate molte brocche panciute, piene di vino di Odobeşti e di Cotnar e alle sue spalle di ciascun boiaro stava un servo, che aveva il compito di riempire il bicchiere. Tutti questi servi erano armati.
Nel cortile, oltre a due giovenche e quattro montoni allo spiedo, c’erano tre botti stappate piene di vino; i servi mangiavano e bevevano; i boiari mangiavano e bevevano. Ora le teste cominciavano a scaldarsi; il vino faceva il suo effetto. I boiari alzavano i bicchieri per brindare e acclamavano il principe con rumorosi evviva, ai quali rispondevano i mercenari con lunghe e potenti grida e i cannoni con colpi a salve.
Era quasi l’ora di alzarsi da tavola, quando Veveriţă, alzando il bicchiere per brindare, disse:
– Lunga vita a te! Che tu possa governare il paese in pace e che il misericordioso Dio ti rafforzi nell’idea di non colpire i boiari e infierire sul popolo…
Non arrivò a finire, che la mazza della guardia lo colpì dritto in fronte, abbattendolo a terra.
– Ah! Voi rimproverare il sovrano! gridò questi; addosso, giovanotti. In un batter d’occhio i servitori alle spalle dei boiari estrassero i pugnali e li colpirono; anche altre guardie, portate dai capitani dei mercenari si gettarono con le spade su di loro. In quanto a Lăpuşneanul, prese Moţoc per la mano e si mise vicino a una finestra aperta, da dove guardava il massacro che era cominciato. Egli rideva, mentre Moţoc, sforzandosi di ridere per compiacere il padrone, sentiva i capelli drizzarsi in testa e battere i denti. E veramente era raccapricciante guardare questa scena sanguinosa. Si immagini qualcuno, in una sala lunga dieci metri e larga otto, cento e più uomini fra assassini e condannati, fra boia e vittima, lottando alcuni con la forza della disperazione e altri con la furia dell’ubriachezza. I boiari, senza alcun presentimento di pericolo, sorpresi vigliaccamente alle spalle, disarmati, cadevano senza opporsi. Quelli più anziani morivano facendosi il segno della croce; molti invece fra i più giovani si difendevano furiosamente; le sedie, i piatti, le posate del banchetto diventavano armi nelle loro mani; alcuni, benché feriti, si avvinghiavano con furia al collo degli assassini e, incuranti delle ferite che ricevevano, li stringevano fino a soffocarli. Se qualcuno riusciva a prendere una spada, vendeva cara la vita. Molti mercenari perirono, ma alla fine non rimase neanche un boiaro vivo. Quarantasette corpi giacevano a terra! In questa lotta corpo a corpo, la tavola si era rovesciata, le brocche si erano rotte e il vino mescolato al sangue formava una pozza sul pavimento della sala.
Contemporaneamente a questo eccidio, cominciò il massacro anche nel cortile. I servi dei boiari, vedendosi aggredire improvvisamente dai soldati, si diedero alla fuga. I pochi che salvarono la vita, riuscendo a saltare oltre le mura, diedero l’allarme nelle case dei boiari; chiamarono altri servi e nobili, allarmarono il popolo e tutta la città corse alla porta del palazzo e cominciò a colpirla con le scuri. Le guardie stordite dall’ebbrezza opponevano solo una debole resistenza. La folla si eccitava sempre di più.
Lăpuşneanul, avvertito dell’arrivo del popolo, mandò lo scudiero a chiedere loro cosa volevano e che cosa chiedevano.
– Ei, vornic Moţoc, disse poi voltandosi verso questi, dimmi, non ho fatto bene a liberarmi di questi malvagi e liberare il paese da una simile piaga?
– Tu signore, hai agito con grande saggezza, rispose l’infame cortigiano; io da tempo avevo in mente di consigliarti questo, ma vedo che la tua saggezza mi ha preceduto e hai fatto bene a ucciderli; perché… giacché … stava per…
– Vedo che lo scudiero tarda, disse Lăpuşneanul, interrompendo Moţoc, che si ingarbugliava nel parlare. Mi viene voglia di ordinare di prendere a cannonate quella plebaglia. Ah, tu che ne peni?
– Bene! Ben! Disperderli a cannonate; non sarà una gran perdita se morirà un centinaio di tangheri, dal momento che sono morti tanti boiari. Sì, che li ammazzino fino all’ultimo.
– Mi aspettavo di sentire una simile risposta, disse con acredine Lăpuşneanul, ma sentiamo prima che cosa vogliono.
Nel frattempo lo scudiero era salito in cima alla porta del palazzo e, facendo cenno, gridò:
– Buona gente! Sua signoria il principe chiede che cosa volete e che cosa chiedete, e perché siete venuti così minacciosi?
La plebe rimase a bocca aperta. Non si aspettava una simile domanda. Erano venuti senza sapere il perché né che cosa volevano. Cominciarono a stringersi in gruppi qua e là e si interrogavano su che cosa chiedere. Infine cominciarono a gridare:
– Diminuire le imposte! – Non taglieggiarci
– Di non frodarci! – Di non depredarci!
– Siamo ormai poveri! – Non abbiamo più soldi! – Ce li ha presi tutti Moţoc! – Moţoc! Moţoc! – Lui ci spoglia e ci depreda.
– Lui consiglia il principe! – Deve morire!
– Moţoc deve morire! La testa di Moţoc vogliamo!
Queste ultime parole, trovando una eco in tutti i cuori, furono come una scintilla elettrica. Tutte le voci divennero una voce sola e questa voce gridava: “La testa di Moţoc vogliamo”.
– Che cosa vogliono? chiese Lăpuşneanul, vedendo lo scudiero rientrare.
– La testa de vornic Moţoc, rispose.
– Come? Cosa? gridò questi saltando come uno che abbia calpestato un serpente; non hai sentito bene, fratello! Vuoi scherzare, ma non è tempo di burle. Che parole son queste? Che c’entra la mia testa? Ti dico che sei sordo; non hai sentito bene!
– Anzi, disse Alexandru-vodă, ascolta tu stesso. Le loro grida si sentono da qui.
In verità, non opponendosi più le guardie, la folla aveva cominciato ad arrampicarsi sulle mura, da dove gridava a squarciagola: “Dateci Moţoc! La testa di Moţoc vogliamo!”
– Oh! Povero me! gridò il miserabile. Vergine Madre Purissima, non mi abbandonare! … Ma che cosa ho fatto io a questa gente? Madre di Dio, salvami da questo pericolo e giuro di fare una chiesa, di digiunare per tutto il resto della vita, di coprire d’oro quella tua icona miracolosa del monastero di Neamţ! … ma, misericordioso signore, non ascoltare degli stolti, dei tangheri. Falli prendere a cannonate … Che muoiano tutti! Io sono un grande boiaro; loro sono delle nullità!
– Nullità, ma tanti, rispose calmo Lăpuşneanul; uccidere una moltitudine per un uomo, non sarebbe un peccato? Giudica da te. Va a morire per il bene della tua patria come dicevi tu stesso quando mi raccontavi che non mi vuole, né mi ama il paese. Sono contento che il popolo ti ripaghi per il servizio che mi hai reso, quando hai venduto il mio esercito ad Anton Sechele per poi abbandonarmi e passare dalla parte di Tomşa.
– Oh! me sciagurato! gridò Moţoc strappandosi la barba, perché dalle parole del tiranno capiva che non vi era scampo per lui. Lasciatemi almeno andare a disporre della mia casa! Abbiate pietà di mia moglie e dei miei figlioletti! Lasciatemi confessare!
E piangeva, e strillava, e singhiozzava.
– Basta! gridò Lăpuşneanul, smetti di piagnucolare come una donnicciola! Sii vero rumeno! A che ti serve confessarti? Cosa dire al confessore? Che sei un bandito e un traditore? Questo lo sa tutta la Moldavia. Su! Prendetelo e datelo al popolo e ditegli che così paga Alexandru-vodă quelli che depredano il paese.
Subito lo scudiero e il capitano dei mercenari presero a trascinarlo. Il miserabile boiaro urlava con tutta la forza che aveva e cercava di difendersi; ma che potevano le sue vecchie mani contro quelle quattro braccia robuste che lo trascinavano! Voleva tirarsi su, ma inciampava nei cadaveri dei suoi compagni e scivolava sul sangue che si era rappreso sul pavimento. Alla fine le forze lo abbandonarono e i satelliti del tiranno, portandolo attraverso la porta della corte più morto che vivo lo spinsero fra la folla.
Il miserabile boiaro cadde nelle spire di quell’idra dalle molte teste, che in un istante lo fece a pezzi.
– ecco come paga Alexandru-vodă quelli che saccheggiano il paese! dissero gli inviati del tiranno.
– Viva sua signoria il principe! rispose la folla. E accontentandosi di questo sacrificio si disperse.
Mentre lo sventurato Moţoc moriva in questo modo, Lăpuşneanul ordinava di sparecchiare e raccogliere le posate; poi fece recidere le teste degli uccisi e gettare i cadaveri dalla finestra. Dopo di che prese le teste, le sistemò in mezzo alla tavola con calma e con ordine; mettendo quelle dei boiari più piccoli sotto e quelle dei più grandi sopra, secondo la stirpe e secondo il rango, finché costruì una piramide di quarantasette teste, al cui vertice si trovava la testa di un grande dignitario. Poi, lavatosi le mani, andò verso una porta laterale, tirò il chiavistello e la stanga che la chiudeva ed entrò nell’appartamento della principessa.
Dall’inizio di questa tragedia, la principessa Ruxanda, nulla sapendo di quello che stava accadendo, era preoccupata. Ella non riusciva a sapere la causa del frastuono che aveva udito, poiché, secondo il costume del tempo, le donne non uscivano dai loro appartamenti e le domestiche non potevano arrischiarsi in mezzo ad un esercito che non sapeva che cosa è la disciplina. Una di loro, più coraggiosa, uscendo, aveva sentito che si trattava di una rivolta contro il principe e portò questa notizia alla sua padrona.
La buona principessa, che temeva la furia del popolo, era spaventata, e quando entrò Alexandru, la trovò che pregava davanti all’icona con i figli accanto.
– Ah! ella gridò, ringrazio la Madre di Dio di vederti. Ho avuto tanta paura.
– per questo, come ti avevo promesso, ti ho preparato una medicina per la paura. Vieni come me signore.
– Ma che cosa erano quelle urla, quelle grida che si sentivano?
– Nulla. È scoppiata una lite fra i servi, ma si sono calmati. Così dicendo, prese Ruxanda per mano e la portò nel salone.
Di fronte al raccapricciante spettacolo, ella lanciò un grido terribile e svenne.
– La donna sempre donna è, disse Lăpuşneanul sorridendo; invece di rallegrarsi, lei si spaventa. E, prendendola fra le braccia, la portò nei suoi appartamenti. Quindi, tornando nuovamente nel salone, trovò il capitano dei mercenari e lo scudiero che lo aspettavano.
– Tu fai gettare dal muro le carogne di questi cani e i loro teschi falli allineare sul muro, disse al mercenario. Tu invece, rivolgendosi allo scudiero, prendimi Spancioc e Stroci.
Ma Stroci e Spancioc erano ormai sul Nistru. Gli inseguitori li raggiunsero proprio mentre varcavano il confine.
– Dite a colui che vi ha mandati, gridò verso di loro Spancioc, che ci rivedremo prima di morire!

 

IV

Se mi rialzerò, parecchi ne manderò in convento anch’io…

Quattro anni erano trascorsi da questa scena, tempo in cui Alexandru-vodå, fedele alla promessa fatta alla principessa Ruxanda, non uccise più neanche un boiaro. Ma per non dimenticare quel piacere tirannico di vedere la sofferenza umana, escogitò ogni sorta di torture.
Cavava gli occhi,; tagliava le mani, cioncava e perseguitava chi cadeva in sospetto; ma i suoi sospetti erano immaginari, in quanto nessuno osava più la minima protesta.
Ciò nonostante egli era inquieto, perché non era riuscito a mettere le mani su Spancioc e su Stroici che stavano a Cameniţa in attesa e spiando il momento buono. Benché avesse come generi due conti molto influenti alla corte polacca, egli era preoccupato per quei due boiari, che non invitassero in Moldavia i polacchi, i quali non aspettavano che un pretesto per entrarci; ma questi due rumeni erano troppo patrioti per non considerare che una guerra e l’ingresso di eserciti stranieri sarebbe stata la rovina del paese.
Lăpuşneanul aveva scritto loro più volte di tornare, impegnandosi con i solenni giuramenti che non avrebbe fatto loro nulla, ma essi sapevano bene quanto valessero i suoi giuramenti. Per sorvegliarli più da vicino, si trasferì nella cittadella di Hotin, che fortificò con particolare cura; se non che qui si ammalò di tifoide. La malattia avanzava rapidamente e ben presto il tiranno si vide sull’orlo della tomba.
Nel delirio delle febbri, gli pareva di vedere tutte le vittime della sua crudeltà, terribili e minacciose, terrorizzandolo e chiamandolo al giudizio di Dio. Invano si contorceva di dolore nel letto, tanto non trovava sollievo.
Chiamati il metropolita Teofan, i vescovi e i boiari e detto loro che si sentiva giunto alla fine dei suoi giorni, chiese perdono a tutti, umiliandosi; poi li pregò di avere pietà di suo figlio Bogdan, che designava erede al trono, e di assisterlo poiché, essendo in tenera età, circondato da potenti nemici, non avrebbe potuto difendere né se stesso né il paese, senza l’unione fra i boiari e senza l’amore e la devozione verso il sovrano.
Quanto a me, seguitò a dire, se guarisco da questo male, andrò a farmi monaco nel monastero di Slatina, dove vivrò in penitenza, il resto dei giorni che Dio mi vorrà concedere. Dunque, vi prego, santi padri, se mi vedeste prossimo a morire, tagliatemi i capelli da monaco.
Non poté dire di più. Fu preso da convulsioni e un tremendo svenimento simile alla morte gli irrigidì il corpo, tanto che il metropolita e i vescovi credendo che stesse per morire, lo consacrarono monaco imponendogli il nome di Paisie, secondo nome, dopo Pietro, che portava prima di diventare sovrano.
Poi, salutando la principessa Ruxanda quale reggente durante la minore età di suo figlio, proclamarono Bogdan sovrano. Subito dopo portarono le staffette verso i boiari del paese e verso gli esuli e verso i capitani degli eserciti.
Era appena tramontato il sole quando Spancioc e Stroici arrivarono.
Lasciati i cavalli alla locanda, corsero veloci alla cittadella. La cittadella era muta e deserta come una gigantesca tomba. Non si sentiva che il mormorio delle onde del Nistru che sbattevano regolarmente contro le sue sponde rocciose, grigie e spoglie e il grido monotono delle sentinelle, che nella luce del crepuscolo si intravedevano appoggiate alle loro lance. Salendo nel palazzo furono colti da non poca meraviglia per il fatto di non incontrare nessuno; infine un servo indicò loro la stanza del malato. Stavano per entrare, quando sentirono un grande frastuono e si fermarono ad ascoltare.
Lăpuşneanul si era destato dal letargo.
Aprendo gli occhi, vide due monaci ai piedi del letto, immobili come due statue di bronzo; si guardò e si vide coperto con un saio; ai piedi del letto c’era un copricapo; Volle alzare la mano ma fu trattenuta da un rosario di lana. Gli parve di sognare e richiuse gli occhi; ma riaprendoli poco dopo, vide le stesse cose, il rosario, il copricapo, i monaci.
– Come ti senti, fratello Paisie? gli chiese uno dei monaci, vedendo che non dormiva.
Questo nome gli ricordò tutto quello che era accaduto. Il sangue dentro di lui cominciò a bollire e, alzandosi a metà:
– Che spauracchi sono questi? gridò. Ah! Voi vi prendete gioco di me! Fuori bifolchi! Uscite! Che vi ammazzo tutti! E cercava un’arma vicino a lui, ma non trovando che il copricapo lo lanciò con rabbia in testa la monaco.
Nel sentire le sue grida, la principessa e suo figlio, il metropolita, i boiari, i servi entrarono tutti nella stanza.
Proprio in quel momento i due boiari erano arrivati e stavano ascoltando sulla porta.
– Ah! Voi mi avete fatto monaco, gridò Lăpuşneanul, con voce roca e terribile; pensate di liberarvi di me! Ma toglietevelo dalla mente. Dio o il diavolo mi guariranno, e…
– Sventurato, non bestemmiare! lo interruppe il metropolita, dimentichi che sei in punto di morte! Pensa, peccatore, che sei monaco; non sei più sovrano! Pensa che con le tue ingiurie e le tue grida spaventi questa povera donna innocente e questo fanciullo su cui poggiano tutte le speranze della Moldavia…
– Bifolco ipocrita, riprese il malato, dimenandosi per alzarsi dal letto; smettila, perché io ti ho dato la metropolia, io te la tolgo. Mi avete fatto monaco voi, ma se mi rialzo, parecchi ne manderò in convento anch’io. Invece questa cagna la taglierò in quattro pezzi insieme al suo marmocchio, perché non ascolti più i consigli dei bifolchi e dei miei nemici… Mente chi afferma che sono monaco! Io non sono monaco, sono principe, sono Alexandru-vodă! … Accorrete guardie! Dove sono i miei prodi! … date! Dategli sotto! Io ve lo ordino. Uccideteli tutti … Nemmeno uno deve fuggire … Ah! soffoco! … Acqua! acqua! acqua! – e ricadde rantolando di rabbia e di sdegno…
La principessa e il metropolita uscirono. Sulla porta si imbatterono in Stroici e Spancioc.
– Principessa, disse Spancioc prendendo per mano Ruxanda, quest’uomo deve morire immediatamente. Ecco una polvere, mettila nella sua bevanda…
– Veleno, gridò ella rabbrividendo.
– Veleno, seguitò Spancioc. Se non morrà subito quest’uomo la vita di tua signoria e di questo bambino sono in pericolo. Abbastanza ha vissuto il padre e abbastanza ne ha fatte. Muoia il padre perché si salvi il figlio.
Un servo uscì.
– Che c’è? domandò la principessa.
– Il malato si è svegliato, chiede acqua e vuole vedere suo figlio. Mi ha detto di non tornare senza di lui!
– Oh! Vuole ucciderlo, gridò l’angosciata madre, stringendo con furia il bambino al seno.
– Non è tempo di indugiare, principessa, aggiunse Spancioc. Ricordati della sposa di Ştefaniţă-vodă e scegli tra marito e figlio.
– Che debbo fare, padre? disse la povera donna, voltandosi con gli occhi pieni di lacrime verso il metropolita.
– Crudele e senza cuore è quest’uomo, figlia mia. Il Signore Iddio ti consigli. Intanto io vado a preparare ogni cosa per il nostro viaggio con il nostro nuovo re; e quello vecchio Iddio lo perdoni e perdoni anche te. Così dicendo, il pio Teofan si allontanò.
Ruxanda prese il bicchiere d’argento pieno d’acqua che il servo stava portando; e poi macchinalmente e più che altro costretta dai boiari, vi lasciò cadere il veleno. I boiari la spinsero nella stanza del malato.
– che cosa sta facendo? chiese Spancioc a Stroici che spiava dalla porta socchiusa.
– Chiede di suo figlio – dice che vuole vederlo – chiede da bere – la principessa trema – gli dà il bicchiere – non vuole prenderlo!…
Spancioc ebbe uno scatto ed estrasse il pugnale dalla cintura.
– No, lo prende, beve … Alla tua salute, signore!
Ruxanda uscì tremante e pallida e, appoggiandosi alla parete, disse: – Voi mi avete fatto commettere questo delitto.
Venne il metropolita.
– Andiamo, disse alla principessa.
– Ma chi si prenderà cura di questo sventurato?
– Noi! risposero i boiari.
– Oh! Padre, che cosa mi hai fatto fare? disse la principessa al metropolita e andò con lui piangendo.
I due boiari entrarono dal malato.
Il veleno non aveva ancora cominciato il suo effetto. Lăpuşneanul stava disteso con la faccia in su, tranquillo, ma debolissimo. Quando entrarono i boiari, egli li guardò a lungo e non riconoscendoli, chiese loro chi erano e che cosa volevano.
– Io sono Stroici, rispose questi.
– E io sono Spancioc, aggiunse l’altro; e quello che vogliamo è di vederti prima di morire, come ti abbiamo promesso.
– Oh! i miei nemici! sospirò Alexandru.
– Io sono Spancioc, seguitò questi, Spancioc che volevi decapitare, quando hai ucciso quarantasette boiari e che è riuscito a scampare alle tue grinfie! Spancioc, le cui ricchezze hai rapinato, lasciando sua moglie e i suoi figli a mendicare alla porta dei cristiani.
– Ah, che cos’è questo fuoco che mi brucia, gridò il malato, prendendosi il ventre fra le mani.
Recita il requiem, perché morrai. Il veleno sta facendo effetto.
– Oh! Mi avete avvelenato, o empi! Signore, abbi pietà dell’anima mia! Oh, che fuoco! Dov’è la principessa? Dov’è mio figlio?
– Se ne sono andati e ti hanno lasciato con noi.
– Se ne sono andati e mi hanno lasciato! Mi hanno lasciato con voi! Oh! Uccidetemi voi, per non soffrire più! Oh! Pugnalami tu, tu sei più giovane, abbi pietà! Liberami dai dolori che mi dilaniano! Pugnalami! disse, voltandosi verso Stroici.
– Non profanerò il mio invitto pugnale con il sangue disonorato di un tiranno come te.
I dolori aumentavano. L’avvelenato si contorceva in preda a convulsioni.
– Oh! gridò, mi brucia l’anima! Oh! datemi dell’acqua… datemi qualcosa da bere!
– Ecco, disse Spancioc, prendendo il bicchiere d’argento; sono rimasti i fondi del veleno; bevi e rinfrescati.
– No, no, non voglio, disse il malato serrando i denti.
Allora Stroici lo prese e lo immobilizzò, mentre Spancioc estraendo il pugnale dalla guaina gli disserrò i denti con la punta e gli versò in gola il veleno che era rimasto nel fondo del bicchiere.
Lăpuşneanul, muggendo come un toro che vede il ceppo e la scure che lo colpiranno, volle girare il viso verso la parete.
– che, non vuoi più vederci? dissero i boiari. No, per la tua punizione è giusto che ci guardi; impara a morire, tu che sapevi solo uccidere. E afferratolo entrambi, lo tenevano immobile, guardandolo con gioia diabolica e rimproverandolo.
Lo sventurato principe si dibatteva fra gli spasmi dell’agonia; aveva la schiuma alla bocca; digrignava i denti, e i suoi occhi iniettati di sangue si sbarrarono; un sudore gelido, triste presagio di morte, usciva come bottoni sul suo volto. Dopo mezz’ora di tormenti, infine spirò nelle mani dei suoi carnefici.
Questa fu la fine di Alexandru Lăpuşneanul, che lasciò una macchia di sangue nella storia della Moldavia.
Nel monastero di Slatina, da lui edificato e dove è sepolto, si vede ancora oggi il suo ritratto insieme alla sua famiglia.

[traduzione di A. Tattoli pubblicata in “Romania Orientale”, 13, 2000, pp. 68-109]

 
ultimo aggiornamento: 29-Mar-2007
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