1870
Mihai Eminescu
Făt-Frumos din lacrimă [Il Bel Principe nato da una lacrima]
Nel tempo antico, quando gli uomini, com’essi son oggi, non erano che nei germi del futuro, quando il Signore calpestava ancora coi suoi santi piedi i deserti sassosi della terra – nel tempo antico viveva un imperatore tetro e pensieroso come la mezzanotte ed aveva un’imperatrice giovane e sorridente come il cuore luminoso del giorno.
Eran cinquant’anni da quando l’imperatore portava guerra ad un suo vicino. Era morto il vicino ed aveva lasciato in eredità ai figli ed ai nipoti l’odio e la sete di sangue. Cinquant’anni, e soltanto l’imperatore sopravviveva solitario, come un leone invecchiato, indebolito da lotte e sofferenze – imperatore che in vita sua non aveva mai riso, che non sorrideva neppure al canto innocente di un bambino, né al sorriso pieno d’amore della sua giovane compagna, né ai vecchi racconti faceti dei soldati incanutiti in battaglie e rinunce. Si sentiva debole, si sentiva vicino a morire e non aveva a chi lasciare l’eredità del suo odio. Triste, s’alzava dal letto imperiale, dal fianco dell’imperatrice giovane – letto d’oro, ma sterile e non benedetto – triste andava in guerra col cuore indomito; e la sua imperatrice, rimasta sola, piangeva con lacrime di vedovanza la sua solitudine. I suoi capelli biondi come l’oro più puro ricadevano sui suoi seni bianchi e rotondi, e dai suoi occhi azzurri e grandi sgorgavano file di liquide perle a rigare un volto più bianco del candore del giglio. Lunghe ombre livide circondavano i suoi occhi e vene azzurre formavano una trama sul suo volto bianco come vivo marmo.
Alzatasi dal suo letto, ella si gettò sui gradini di pietra di una nicchia scavata nel muro, in cui vegliava, al di sopra di un fiume fumoso, l’icona rivestita d’argento della Madre Dolorosa. Commossa dalle preghiere dell’imperatrice prostrata, le palpebre dell’icona fredda s’inumidirono ed una lagrima sgorgò dall’occhio nero della mamma del Signore. L’imperatrice si alzò in tutta la sua imponenza, toccò col suo labbro arido la lagrima fredda e la sorbì fin nel profondo dell’animo suo. Da quel momento rimase incinta.
Passò un mese, ne passaron due, ne passaron nove e l’imperatrice fece un bimbo bianco come la spuma del latte, dai capelli biondi come i raggi della luna.
L’imperatore sorrise, il sole sorrise anche lui nel suo regno infuocato, interruppe addirittura il suo cammino, tanto che per tre giorni non ci fu notte, ma solo sereno ed allegria; il vino scorreva dalle botti aperte e le grida di gioia spaccavano la volta del cielo.
E la mamma gli mise il nome di Făt-Frumos nato da una lagrima.
E crebbe e si fece grande come gli abeti dei boschi. Cresceva in un mese quanto gli altri in un anno.
Quando fu abbastanza grande, si fece fare una mazza di ferro, la gettò su, fino a squarciare la volta del cielo, l’afferrò col mignolo e la mazza si spezzò in due.
Allora ordinò che gliene facessero un’altra più pesante, la gettò su, fin quasi al palazzo di nubi della luna; ricadendo dalle nubi, non si ruppe al dito del prode.
Allora Făt-Frumos prese commiato dai genitori, per andarsi a battere, lui solo, con le schiere dell’imperatore che faceva guerra a suo padre. Mise sul suo corpo regale panni da pastore, camicia di organzino, tessuto con le lagrime di sua madre, allegro cappello con fiori, con nastrini e perle strappate dal collo delle figlie di imperatori, si mise alla verde cintura un flauto per le doine ed un altro per le hore1 e, quando era già alto il sole nel cielo, se n’è andato per il vasto mondo con la sua lieta baldanza.
Per via suonava allegre hore e doine malinconiche, mentre lanciava la sua mazza e squarciare le nubi, tanto che ricadeva lontana quanto un giorno di cammino. Le valli e i monti si stupivano ascoltando i suoi canti, le acque sollevavano più in alto i loro flutti, per ascoltarlo, le fonti intorbidavano la loro profondità per spinger fuori le loro onde, affinché ogni onda l’ascoltasse, affinché ognuna potesse cantare come lui quando avrebbe sospirato alle valli ed ai fiori.
I ruscelli che scrosciavano al di sotto delle cinture di malinconiche rupi, imparavano dal principe pastore la doina degli amori e le aquile, che se ne stanno mute sulle creste aride e grigie degli alti picchi, imparavano da lui il desolato grido della disperazione. Al passaggio del principe pastorello, che intonava meste hore, tutte le cose restavano stupefatte; gli occhi neri delle fanciulle si riempivano di lagrime d’amore; e nel petto dei giovani pastori, appoggiati con un gomito ad un masso e con una mano sul vincastro, spuntava un desiderio più profondo e oscuro, più grande – il desiderio di gesta audaci.
Tutto restava immobile, solo Făt-Frumos continuava a camminare, inseguendo col canto il desiderio del suo cuore e con gli occhi la mazza che scintillava tra le nubi e nell’aria come un’aquila d’acciaio, come una stella fatata.
Quando stava per scendere la sera del terzo giorno, la mazza cadendo urtò contro una porta di bronzo e destò un lungo e potente rimbombo. La porta era a pezzi e l’eroe entrò. La luna si era levata sui monti e si specchiava in un lago grande e limpido, come il sereno del cielo. Sul fondo si vedeva scintillare, tanto era limpido, una rena d’oro; ed in mezzo, su un’isola di smeraldo, incoronato da un boschetto di alberi verdi e frondosi, s’innalzava un superbo palazzo di marmo lucente e candido come il latte, tanto lucente che nei muri rispecchiava, come in uno specchio d’argento: ciuffi d’alberi e boschetto, lago e rive. Una barca d’oro vegliava presso la porta sulle limpide onde del lago; e nella trasparente atmosfera della sera si levavano tremuli dal palazzo canti meravigliosi e sereni. Făt-Frumos salì in barca e remando, giunse fino alle marmoree scalinate del palazzo. Entrato là, egli vide pendere dalle volte delle scalinate candelabri e centinaia di bracci e su ogni braccio ardeva una stella si fuoco. Entrò nel salone. Il salone era alto, sostenuto da colonne ed archi, tutti d’oro, e al centro v’era una tavola splendida, coperta di bianco, i piatti tutti ricavati ciascuno da una sola enorme perla; e i boiari che sedevano a mensa in abiti ricamati d’oro, su seggi di velluto rosso, erano belli come i giorni della giovinezza ed allegri come le hore. Ma sopra tutto uno di loro, con la fronte cinta da un diadema d’oro, tempestato di diamanti, e con abiti splendenti, era bello come la luna d’una notte d’estate. Ma ancor più superbo era Făt-Frumos.
- Benvenuto, Făt-Frumos! Disse l’imperatore, di te ho sentito parlare, ma vederti, ancora non ti ho visto.
- Ben trovato, imperatore, anche se temo che non ci separeremo bene perché sono venuto per una dura sfida, ché troppo hai tramato contro mio padre.
- Ma non ho tramato affatto contro tuo padre, anzi ho sempre lottato con leale lotta. Però con te, non ho nessuna intenzione di battermi. Piuttosto, darò ordine ai lautari2 di suonare ed ai coppieri di riempire di vino le coppe e ci legheremo con giuramento d’amicizia finché ci saremo e avremo vita. E s’abbracciarono i figli di imperatori, tra gli evviva dei boiari e bevvero e stettero a discorrere.
L’imperatore chiese a Făt-Frumos:
- Di chi hai più paura al mondo?
- Di nessuno in questo mondo, solo di Dio. E tu?
- Di nessuno anch’io, tranne di Dio e dell’Orchessa. Una vecchia orribile, che s’aggira per il mio regno, tenendo per mano la tempesta, Dove passa lei, la faccia della terra s’inaridisce, i villaggi si disperdono, le città crollano in rovina. Le ho mosso guerra, ma non ho concluso nulla. Perché non distruggesse tutto il mio regno, son stato costretto a scendere a patti con lei e a darle, come tributo, per ogni nova bambini dei miei sudditi, il decimo. E oggi viene a prendersi il tributo. Quando suonò la mezzanotte, le facce dei convitati si turbarono; poiché a cavallo della mezzanotte, con ali di vento, col volto rugoso scavato come un masso putrido e solcato da rigagnoli, con una selva al posto dei capelli, urlava per l’aria tenebrosa la malvagia Orchessa.
I suoi occhi – due notti di tempesta, la sua bocca – un abisso spalancato, i suoi denti – file di pietre da mulino.
Mentre arrivava urlando, Făt-Frumos l’afferrò per la vita e la scagliò a tutta forza in un grande mortaio di pietra; sul mortaio fece rotolare un pezzo di roccia, che legò da tutte le parti con sette catene di ferro. Dentro, la vecchia sibilava e s’agitava come il vento imprigionato, ma non le serviva a nulla.
Tornò di nuovo al banchetto; quando, attraverso gli archi delle finestre alla luce della luna, videro due lunghi argini d’acqua. Che era? L’Orchessa, non potendo uscire, passava attraverso l’acqua con tutto il mortaio e ne divideva la superficie in due argini. E continuava a fuggire, un macigno indemoniato, che si apriva la via attraverso i boschi, che fendeva la terra con un lungo solco, finché divenne invisibile nella lontananza notturna.
Făt-Frumos si godette il banchetto quanto gli piacque e poi, mettendosi la mazza in spalla, seguì il solco tracciato dal mortaio, finché arrivò presso una casa bella, bianca che sfavillava al chiarore lunare in mezzo ad un giardino pieno di fiori. I fiori erano disposti in aiole verdi e splendevano azzurri, rosso-scuri e bianchi, mentre fra di loro sciamavano lievi farfalle, simili e scintillanti stelle d’oro. Profumo, luce ed un canto ininterrotto, sommesso, dolce, che usciva dallo sciamare delle farfalle e delle api, inebriavano il giardino e la casa. Presso la veranda stavano due botti d’acqua e sulla veranda filava una bella fanciulla. Il suo abito bianco e lungo pareva una nube di raggi e ombre, ed i suoi capelli d’oro erano raccolti in trecce che ricadevano sulle spalle, mentre una ghirlandina di mughetti era sistemata sulla fronte liscia. Illuminata dai raggi della luna, ella sembrava immersa in un’atmosfera d’oro e da un pennacchio di lana argentea un filo di seta bianca, sottile, brillante che assomigliava molto di più ad un vivo raggio di luna che attraversava l’aria, piuttosto che ad un filo attorcigliato.
Al rumore leggero dei passi di Făt-Frumos, la fanciulla alzò i suoi occhi azzurri come le onde del lago.
- Benvenuto, Făt-Frumos, disse lei con i limpidi occhi socchiusi, da quanto ti ho sognato … Mentre le mie dita attorcigliavano un filo, i miei pensieri filavano un sogno, un sogno bello in cui noi due ci amavamo: Făt-Frumos, dal pennacchio d’argento filavo ed era per farti un vestito con ordito d’incanti e trama di felicità; per fartelo portare … per farmi amare da te. Col mio filo ti farei un abito, coi miei giorni una vita piena di tenerezza.
Così, mentre lo guardava con aria umile, il fuso le sfuggì di mano e la conocchia le cadde al fianco. Essa si alzò e, quasi vergognosa di quel che aveva detto, sene stette con le braccia abbandonate come un bambino colpevole ed i suoi grandi occhi s’abbassarono, Egli le si avvicinò, con una mano le cinse la vita, mentre con l’altra le accarezzava pian piano la fronte ed i capelli, sussurrandole:
- Quanto sei bella, quanto mi sei cara! Di chi sei figlia, fanciulla mia?
- Dell’Orchessa, rispose lei sospirando; mi amerai ancora adesso che sai di chi son figlia? Con le sue braccia nude gli cinse il collo e lo guardò a lungo negli occhi.
- Che m’importa di chi sei figlia, rispose, basta che io ti voglia bene.
- Allora, se mi vuoi bene, fuggiamo, disse lei stringendosi più forte al suo petto; se ti trovasse mia madre, ti ucciderebbe e se tu morissi, impazzirei e morrei anch’io.
- Non avere paura, disse lui sorridendo e sciogliendosi dalle sue braccia. Dov’è tua madre?
- Da quand’è venuta, si agita nel mortaio in cui l’hai rinchiusa e coi denti rode a più non posso le catene che la imprigionano.
- Che importa! Disse lui correndo a vedere dov’era.
- Făt-Frumos, disse la fanciulla e due grandi lagrime brillarono nei suoi occhi, non andarci ancora! Lascia che ti insegni io che cosa dobbiamo fare perché tu vinca mia madre. Vedi queste due botti? Una contiene acqua, l’altra forza. Mettiamo l’una al posto dell’altra. Mia madre, quando lotta con i suoi nemici, se si sente stanca, grida:
“Aspetta, beviamo un sorso d’acqua! ” Poi lei beve forza, mentre il suo avversario solo acqua. Perciò noi le scambiamo di posto: lei non lo saprà e berrà solo acqua durante la lotta con te. Come ha detto, così ha fatto. Egli corre dietro la sua casa:
- Che fai, vecchia? Gridò.
La vecchia, invelenita, di colpo schizzò fuori dal mortaio e, rotte le catene, s’allungò magra e alta fino alle nubi.
- Ah, capiti a proposito, Făt-Frumos! Disse lei accorciandosi di nuovo, svelto adesso, battiti; ora vedremo chi è più forte!
- Forza, disse Făt-Frumos.
La vecchia lo afferrò per la vita, si allungò innalzandosi con lui fino alle nubi, poi lo scagliò sulla terra e lo ficcò nella polvere fino al polpaccio.
Făt-Frumos scaraventò giù lei e la ficcò nella terra fino alle ginocchia.
- Aspetta, beviamo un po’ d’acqua, disse l’Orchessa stanca. Si fermarono a riprender fiato. La vecchia bevve acqua; Făt-Frumos bevve forza, ed una specie di fuoco inestinguibile gli percorse con brividi di freddo tutti i muscoli e tutte le vene indebolite. Con una forza raddoppiata, con braccia di ferro, afferrò la vecchia per la vita e la ficcò in terra fino alla gola. Poi la colpì con la mazza sulla testa e le fece volar via le cervella. Il cielo s’incanutì di nubi, il vento cominciò a gemere di freddo e a scuotere la piccola casa in tutte le connessure delle sue travi. Serpi rosse squarciavano lampeggiando il nero grembo delle nubi, le acque sembravano urlare, solo il tuono aveva una voce profonda, come un profeta di perdizione. In quella tenebra fitta ed impenetrabile, Făt-Frumos vedeva biancheggiare un’ombra d’argento che errava, pallida, i capelli d’oro sciolti e le mani levate. Egli le si avvicinò e la cinse con le braccia. Essa s’abbandonò sul suo petto come morta dal terrore, e le sue mani fredde si nascosero nel suo petto. Per svegliarla, le baciò gli occhi. Le nubi si squarciavano a brandelli nel cielo, la luna, rossa come il fuoco, appariva fra i loro squarci, qua e là; e sul suo petto, Făt-Frumos vedeva sbocciare due stelle azzurre, limpide e piene di stupore – gli occhi della sua sposa. La prese in braccio e si mise a fuggire con lei nella tempesta. Lei, aveva abbandonato il capo sul suo petto e pareva che si fosse addormentata. Giunto presso il giardino dell’imperatore,egli la pose nella barca, portandola come in una culla sul lago, strappò erba, fieno odoroso e fiori del giardino e le preparò un letto, in cui la sistemò come in un nido.
Il sole, levandosi ad oriente, li guardava con gioia. Gli abiti di lei umidi di pioggia aderivano alle membra dolci e rotonde, il suo volto di un pallore umido come la cera bianca, le mani piccole e unite sul petto, i capelli sciolti e sparsi sull’erba, gli occhi grandi, chiusi, ed infossati sotto la fronte, così era bella, ma pareva morta. Su quella fronte liscia e bianca, Făt-Frumos sparse alcuni fiori azzurri, poi le sedette a fianco e cominciò a suonare una lenta doina. Il cielo limpido – l’avresti detto un mare, il sole – un volto di fuoco, le erbe rugiadose, l’umida fragranza dei fiori ravvivati la facevano dormire di un sonno lungo e calmo, accompagnata sulla via dei suoi sogni dalla voce lamentosa del flauto. Quando il sole era a mezzogiorno, la natura taceva e Făt-Frumos ascoltava il suo respiro felice, caldo e umido. Piano,m si chinò sul suo volto e ola baciò. Allora lei aprì gli occhi ancor pieni di sogni e stirandosi sonnolosa, disse piano e sorridendo:
- Ci sei ancora?
- No, che non ci sono! Non lo vedi che non ci sono? Disse lui con nuove lacrime di gioia.
Poiché le sedeva accanto, ella tese un braccio e le cinse la vita.
- Su, alzati, disse lui accarezzandola, è giorno fatto.
Lei si alzò, si ravviò i capelli sulla fronte e li gettò dietro le spalle, lui le cinse la vita, lei gli circondò il collo e così passarono tra aiole di fiori ed entrarono nel palazzo di marmo dell’imperatore. Egli la condusse dall’imperatore e gliela presentò, dicendogli che era la sua sposa. L’imperatore sorrise, poi prese per mano Făt-Frumos, come se egli avesse voluto dire qualcosa in segreto, e lo portò presso una grande finestra, attraverso la quale si vedeva la distesa del lago.
Ma egli non disse nulla, solo turbato guardò verso lo specchio del lago e gli occhi si riempirono di lagrime. Un cigno aveva spiegato le sue ali come vele d’argento e col capo immerso nell’acqua rompeva la superficie tranquilla del lago.
‑ Piangi, imperatore? Disse Făt-Frumos. Perché?
Făt-Frumos, disse l’imperatore, il bene che mi hai fatto non te lo posso ripagare neanche con la luce degli occhi, per quanto mi possa essere preziosa, e con tutto ciò che ti sto per chiedere ancora qualcosa di più.
‑ Cosa imperatore?
‑ Vedi là quel cigno innamorato delle onde? Giovane come sono, dovrei essere innamorato della vita e, invece, quante volte non ho voluta farla finita… Amo una fanciulla bella, dagli occhi pensosi, dolce come le visioni del mare – la figlia di Genar, uomo superbo e selvatico, che passa la sua vita cacciando in foreste secolari. Oh, quanto è rozzo lui, tanto è bella sua figlia! Ogni tentativo di rapirla è stato vano. Provaci tu!
Făt-Frumos sarebbe rimasto l, ma gli era sacro il sentimento d’amicizia, come a ogni prode, più caro della vita, più caro della sposa.
‑ Saggio imperatore, di tutte le fortune che hai avuto, una è stata più grande di tutte: quella che Făt-Frumos ti è fratello per giuramento. Ebbene, ci vado io a rapire la figlia di Genar!
E si scelse cavalli veloci, cavalli con il vento per anima, Făt-Frumos ed era pronto per avviarsi. Allora la sua sposa – si chiamava Ileana – gli sussurrò all’orecchio, baciandolo con dolcezza:
- Non dimenticare, Făt-Frumos, che per tutto il tempo che tu starai lontano, io continuerò a piangere.
Egli la guardò con compassione, l’accarezzò, ma poi, sciogliendosi dai suoi abbracci, balzò in sella al cavallo e se ne andò per il mondo.
Passava per boschi deserti, per monti dalla fronte nevosa e quando sorgeva fra vecchie rupi la luna pallida, come il volto di una fanciulla morta, allora vedeva di quando in quando penzolare dal cielo un enorme cencio che avvolgeva con i suoi lembi la cima di qualche monte - una notte a brandelli, un passato in rovina, un castello fatto solo di pietre e di mura diroccate.
Quando comincia ad albeggiare, Făt-Frumos vede che la catena dei monti s’apre su un mare verde e vasto, che palpita in migliaia di onde serene, luccicanti, che solcano dolcemente e melodiosamente la distesa del mare, fin dove l’occhio si perde nell’azzurro del cielo e nel verde del mare. In fondo alla catena dei monti, proprio a picco sul mare, si specchiava sul suo fondo una gigantesca rupe di granito, da cui si innalzava come candido nido una bella fortezza, la quale tanto era sfavillante, che sembrava rivestita d’argento. Dai muri ad arco spiccavano finestre splendenti e da una finestra aperta s’intravedeva, in mezzo a vasi di fiori,una testa di fanciulla, bruna e sognante, come una notte d’estate. Era la figlia di Genar.
- Benvenuto, Făt-Frumos, disse lei staccandosi d’un balza dalla finestra e spalancando le porte del grandioso castello, dove abitava sola come un genio del deserto, questa notte mi sembrava di parlare con una stella e la stella mi ha detto che vieni da parte dell’imperatore che mi ama.
Nel gran salone del castello, nella cenere del focolare, vegliava un gatto con sette teste, che se urlava da una testa, lo si sentiva a una distanza di un giorno di cammino, e se urlava da tutt’e sette, lo si sentiva alla distanza di sette giorni di cammino.
Genar, perso nelle sue selvagge cacce, era lontano un giorno di cammino.
Făt-Frumos prese la fanciulla in braccio e, messala sul cavallo, volavano entrambi sul deserto che costeggiava il mare, come due indistinte forme dell’etere.
Ma Genar, uomo alto e forte, aveva un cavallo fatato, con due spiriti. Il gatto nel castello miagolava da una testa ed il cavallo di Genar nitriva con la sua voce di bronzo.
- Che c’è, chiese Genar al cavallo fatato, sei stufo di star bene?
- Io non sono stufo di star bene, ma tocca a te di star male. Făt-Frumos ha rapito tua figlia.
- Dobbiamo affrettarci molto per riprenderli?
- Affrettiamoci, ma non troppo, perché li possiamo raggiungere.
Genar montò a cavallo e volò come il vecchio spavento sulle orme dei fuggitivi. Presto li raggiunse. Battersi con lui Făt-Frumos non poteva, perché Genar era cristiano e la sua forza non stava negli spiriti delle tenebre, ma in Dio.
- Făt-Frumos, disse Genar, bello lo sei davvero molto, perciò ho compassione di te. Per questa volta non ti faccio nulla, ma un’altra volta… tienilo a mente!
E prendendosi a fianco sua figlia, scomparve nel vento, come se non fosse mai esistito.
Ma Făt-Frumos era prode e sapeva la via del ritorno. Egli tornò e trovò la fanciulla di nuovo sola, ma più pallida e segnata dal pianto pareva ancora più bella.
Genar se n’era andato di nuovo a caccia, lontano due giorni di cammino. Făt-Frumos prese altri cavalli addirittura dalla stalla di Genar.Questa volta partirono di notte. Fuggivano come fuggono i raggi della luna sui profondo flutti del mare, fuggivano per la notte deserta e fredda come due visioni amate; ma nella loro fuga udivano i miagolii prolungati e ripetuti del gatto, dal focolare al castello. Poi una nube di polvere li avvolse, poiché Genar veniva facendo galoppare il cavallo ventre a terra, tanto che pareva squassare il suolo.
Il suo volto era spaventoso, lo sguardo feroce. Senza profferir parola, afferrò Făt-Frumos e lo scaraventò tra le nubi nere e tempestose del cielo. Poi scomparve completamente con sua figlia.
Incenerito Făt-Frumos da un fulmine, di lui non ricadde che un pugno di cenere sulla rena infuocata e arida del deserto. Ma dalla sua cenere sgorgò una polla limpida, che scorreva su una sabbia di diamante; ai suoi bordi alberi alti, verdi, fronzuti spandevano un’ombra fresca e profumata. Se qualcuno avesse compreso la voce della polla avrebbe capito che piangeva in una lunga doina Ileana, l’imperatrice bionda di Făt-Frumos. Ma chi poteva capire la voce della sorgente in un deserto, dove fino ad allora nessuno aveva messo piede?
Ma, a quei tempi, il Signore camminava ancora sulla terra. Un bel giorno si vedevano due uomini viaggiare nel deserto. Gli abiti ed il volto di uno risplendevano come la luce abbagliante del sole; l’altro, più umile, non sembrava che l’ombra di quello luminoso. Erano il Signore e San Pietro. I loro piedi infuocati dalla sabbia del deserto si posarono allora nel fresco e limpido ruscello che scorreva dalla polla. Risalendo il corso dell’acqua, con le loro caviglie rompevano le onde fino alla loro ombrosa sorgente. Là, il Signore bevve dell’acqua e si lavò il viso santo e luminoso e le sue mani capaci di fare miracoli. Si sedettero tutti e due all’ombra – il Signore pensando al padre suo nei cieli e San Pietro ascoltando sovrapensiero la doina della fonte piangente. San Pietro disse: “ Signore, fa’ che questa sorgente sia quel che è stata prima ”. “ Così sia! ”disse il Signore alzando la sua santa mano; dopo di che s’allontanarono verso il mare senza guardare più indietro.
Come per incanto scomparvero la sorgente e gli alberi e Făt-Frumos, come risvegliato da un lungo sonno, si guardò intorno. Allora vide la figura radiosa del Signore, che camminava sulle onde del mare, le quali gli si chinavano davanti, proprio come sull’asciutto; e San Pietro che, andandogli dietro e vinto dalla sua natura umana, si girava a guardare e faceva cenno col capo a Făt-Frumos. Făt-Frumos li seguì con gli occhi finché la figura di San Pietro svanì nella lontananza e non si vedeva che la figura splendente del Signore che gettava una striscia di luce sullo specchio dell’acqua, cosicché, se il sole non fosse stato a mezzogiorno, gli sarebbe parso che il sole tramontasse! Egli aveva capito il prodigio della sua resurrezione e s’inginocchiò verso il tramonto di quel sole divino.
Ma poi si ricordò che aveva promesso di rapire la figlia di Genar e ciò che promette, il prode malvolentieri lo lascia incompiuto.
Perciò si mise in cammino e sul far della sera giunse al castello di Genar che sfavillava nel buio serotino come un’ombra gigantesca. Entrò in casa … la figlia di Genar piangeva. Ma quando lo vide, il suo viso si rischiarò come viene rischiarata un’onda da un raggio.
Egli le narrò com’era tornato in vita; allora lei gli disse: “Rapire, non mi puoi rapire, finché non avrai un cavallo uguale a quello di mio padre, perché quello ha due spiriti; ma io gli chiederò questa sera dov’è che ha preso il suo cavallo, in modo che anche tu possa procurartene uno come quello. Fino ad allora però, perché non ti scopra mio padre, ti trasformerò in fiore ”. Egli sedette su una sedia, e lei sussurrò un incantesimo dolce e, come lo baciò sulla fronte, egli si trasformò in un fiore rosso cupo come la visciola matura. Ella lo pose tra i fiori della finestra e cantava di gioia, tanto che il castello di suo padre ne risuonava.
Allora entrò anche Genar.
- Contenta, figlia mia? E di che sei contenta? Chiese lui.
- Che non c’è più Făt- Frumos a rapirmi, rispose lei ridendo. Si misero a cena.
- Papà, chiese la ragazza, dove hai preso il cavallo con cui vai a caccia?
- A che ti serve saperlo? Disse lui aggrottando le sopracciglia.
- Sai benissimo, rispose la fanciulla, che io non voglio saperlo se non così, tanto per saperlo, perché ormai non c’è più Făt-Frumos a rapirmi.
- Lo sai che non ti contraddico mai, disse Genar.
Lontano da qui, vicino al mare, vive una vecchia che ha setter cavalle. Ella prende degli uomini a custodirgliele per un anno (sebbene un suo anno non sia che di tre giorni) e se uno gliele custodisce bene, lei gli fa scegliere per ricompensa un puledro, altrimenti lo uccide e infila il suo capo su un palo. Però anche se uno custodisce bene le cavalle, ugualmente lei lo inganna, perché toglie gli spiriti da tutti i cavalli e li mette in uno solo, cosicché quello che ha custodito sceglie sempre un cavallo senza spirito, che è peggio di uno comune …
Sei soddisfatta figlia mia?
- Soddisfatta, rispose lei sorridendo.
Subito, però Genar le gettò sul viso un fazzoletto rosso, lieve, odoroso. La fanciulla guardò a lungo negli occhi di suo padre, come una persona che si ridesta da un sogno di cui non si riesce a ricordarsi. Aveva dimenticato tutto ciò che le aveva detto suo padre. Però il fiore sulla finestra vegliava fra le sue foglie, come una stella rossa attraverso le increspature di una nube.
Il giorno dopo, di buon mattino, Genar andò nuovamente a caccia.
La fanciulla baciò mormorando il fiore rosso e Făt- Frumos nacque come dal nulla davanti a lei.
- Allora, sai qualcosa? Le chiese
- Non so nulla, disse lei triste e mettendo il dorso della mano sulla sua fronte, ho dimenticato tutto.
- Io però ho sentito tutto, disse lui. Ti saluto fanciulla mia; presto ci vedremo di nuovo.
- Balzò su un cavallo e sparì in distese solitarie.
Nella calura rovente del giorno… vide vicino al bosco una zanzara che si divincolava nella sabbia bollente.
- Făt-Frumos, disse la zanzara, prendimi e portami fin nel bosco, che ti sarò utile anch’io. Sono la regina delle zanzare.
Făt-Frumos la portò fin nel bosco per cui doveva passare.
Uscendo dal bosco, passò di nuovo per il deserto lungo il mare e vide un gambero tanto bruciato dal sole, che non aveva neanche più la forza di tornare indietro…
- Făt-Frumos, disse, gettami in mare, che ti sarò utile anch’io. Sono il re dei gamberi.
Făt-Frumos lo gettò in mare e proseguì per la sua strada.
Quando, sul far della sera, giunse ad una misera capanna, ricoperta di sterco di cavallo. Intorno non c’era steccato, ma solo alcuni pali aguzzi, sei dei quali avevano in cima una testa ciascuno, mentre il settimo, senza, si dondolava continuamente e diceva: capo! capo! capo!
Sulla veranda, una donna vecchia e rugosa, stesa su un vecchio gabbano, stava con la sua testa grigia come la cenere in grembo ad una schiava giovane e bella, che le cercava i pidocchi.
- Ben trovata, disse Făt-Frumos.
- Benvenuto, giovanotto, disse la vecchia alzandosi. Perché sei venuto? Che cerchi? Vuoi portare al pascolo le mie cavalle, forse?
- Si.
- Le mie cavalle pascolano solo di notte … Guarda, fin da ora puoi andartene con loro al pascolo … Su, ragazza! da’ un po’ di mangiare al giovane quel che gli ho preparato io e fallo andare.
Di fianco alla capanna c’era, sottoterra, una cantina. Egli vi entrò e lì vide sette splendide cavalle nere — sette notti, che, da quando esistevano, non avevano ancora visto la luce del sole. Nitrivano e scalpitavano. Digiuno tutto il giorno, egli cenò quel che gli aveva dato la vecchia e poi, montando su una delle cavalle, sospinse le altre nell’aria buia e fredda della notte. Ma pian piano sentì che gli si diffondeva per tutte le vene un sonno di piombo, gli occhi gli si annebbiarono e cadde come morto nell’erba del prato. Si destò al primo spuntar del giorno. Delle cavalle, neanche l’ombra. Si vedeva già con la testa conficcata sul palo, quando vide uscire da un bosco, in lontananza, le sette cavalle pungolate da un nugolo di zanzare ed una voce sottile gli disse:
- Mi hai fatto del bene, te l’ho fatto anch’io.
Quando tornò con i cavalli, la vecchia cominciò ad infuriarsi, a mettere sottosopra la casa e a picchiare la fanciulla, che non aveva nessuna colpa.
- Che hai, mamma? Chiese Făt-Frumos.
- Nulla, rispose lei, mi è venuta la luna. Contro di te non ho nulla … sono molto soddisfatta.
Poi, entrando nella stalla, cominciò a battere i cavalli, strillando:
- Nascondetevi meglio, che il cielo vi fulmini! Che non vi trovi più, gli possa prendere un colpo, che il diavolo se lo porti!
Il giorno dopo partì con i cavalli, ma di nuovo cadde a terra e dormì fino allo spuntare del’alba. Disperato, stava per andarsene alla ventura, quando all’improvviso vide uscire dal fondo del mare i sette cavalli, morsi da una schiera di gamberi.
- Mi hai fatto del bene, disse una voce. Te l’ho fatto anch’io. Era il re dei gamberi.
Spinse i cavalli verso casa e vide di nuovo una scena come quella del giorno precedente.
Ma durante la giornata, la schiava della vecchia gli si avvicinò e gli disse piano, stringendogli la mano:
- Io so che tu sei Făt-Frumos. Non mangiare più i cibi che ti cucina la vecchia, perché son fatti con l’erba del sonno … Ti preparerò io cibi di altro genere.
La fanciulla di nascosto preparò per lui uno spuntino e verso sera, quando doveva partire con i cavalli, si sentì come per miracolo con la testa leggera.
Verso mezzanotte tornò a casa, spinse i cavalli nella stalla, ve li chiuse a chiave ed entrò nell’abitazione. Sul focolare, nella cenere, rosseggiava ancora qualche carbone. La vecchia stava stesa sulla panca, rigida come morta. Egli pensò che fosse morta e la scrollò. Era come un tronco e non si muoveva per niente. Svegliò la ragazza che dormiva presso il forno.
- Guarda, disse, ti è morta la vecchia.
- Eh, aspetta che questa muore! Rispose sospirando, E’ vero che adesso sembra morta. Adesso è mezzanotte… una specie di torpore le irrigidisce il corpo … ma il suo spirito chissà per quanti crocicchi vaga, chissà quanti sortilegi prepara … Fin che comincia a cantare il gallo, lei ruba le anime di quelli che muoiono oppure tormenta gli infelici. E così, domani ti termina l’anno; portami via con te, che ti sarò di grande aiuto. Ti salverò da molti pericoli, che la vecchia ti sta preparando. Tirò fuori dal fondo di una cassa vecchia e sgangherata una selce, una spazzola ed un velo.
Il giorno dopo, di buon mattino, a Făt-Frumos scadeva l’anno. La vecchia doveva dargli uno dei cavalli e poi lasciarlo andare con Dio. Mentre pranzavano, la vecchia andò fin nella stalla, tolse gli spiriti da tutti e sette i cavalli, per ficcarli tutti in un ronzino così macilento, che gli potevi guardare attraverso le costole. Făt-Frumos si alzò da tavola e, su invito della vecchia , si andò a scegliere il cavallo che doveva prendersi. I cavalli senza spirito erano di un nero splendente, il ronzino con gli spiriti stava coricato in un canto, su un mucchio di letame.
- Questo qui, mi scelgo, disse Făt-Frumos mostrando il cavallo macilento.
- Ma come, Dio mi perdoni, dovresti lavorare per nulla? Disse la vecchia ipocrita. Perché non dovresti prenderti quel che è tuo diritto? Scegliti uno di questi cavalli, di questi belli … qualunque sia te lo do.
- No, questo voglio, disse Făt-Frumos senza rimangiarsi la parola.
La vecchia digrignò i denti come pazza, ma poi serrò quel mulino di bocca sdentata, perché non ne uscisse il veleno che le rimestava il perfido cuore.
- Dai, prenditelo! Disse alla fine.
Egli salì a cavallo con la mazza in spalla. Sembrava che la superficie del deserto fuggisse sulle sue orme e volava come un pensiero, come un turbine tra i vortici di sabbia che si sollevavano dietro di lui.
In un bosco lo aspettava la fanciulla fuggita. La fece salire a cavallo dietro di lui e continuò a fuggire. La notte aveva inondato la terra con la sua aria tenebrosa e fredda,
- Mi brucia la schiena! Disse la fanciulla.
Făt-Frumos guardò indietro. Da un alto vortice verdastro apparivano due immoti occhi di bragia, i cui raggi rossi come il fuoco ardente penetravano nelle viscere della fanciulla.
- Getta la spazzola, disse la fanciulla.
Făt-frumos le ubbidì. E subito alle loro spalle videro drizzarsi una foresta nera, fitta, grande, percorsa da un lungo fremito di fronde e da un ululato famelico di lupi.
- Avanti, gridò Făt-Frumos al cavallo, che voleva simile a un demonio inseguito da una maledizione, nella tenebra della notte. La luna pallida passava fra le nubi oscure, come un volto sereno in mezzo a sterili e fosche visioni. Făt-Frumos volava … volava senza posa.
- Ho il fuoco alla schiena! Disse la fanciulla con un gemito soffocato, come se si fosse sforzata a lungo di non parlare ancora.
Făt-Frumos guardò e vide un gufo grande e scuro, di cui non brillavano che gli occhi rossi, come due fulmini appesi ad una nube.
- Getta la selce, gli disse la fanciulla.
Făt-Frumos la gettò. E subito si drizzò da terra uno scuro spuntone di roccia, dritto, immoto, un gigante impietrito come lo spavento, col capo che sfiorava le nubi.
Făt-Frumos sfrecciava per l’aria così velocemente, che gli pareva non di fuggire, ma di cadere dall’alto del cielo in un abisso invisibile.
- Brucia, disse la fanciulla.
La vecchia aveva forato la roccia in un punto e passava attraverso ad essa trasformata in un cordone di fune, la cui punta ardeva come un carbone.
- Getta il velo, disse la fanciulla.
Făt-Frumos le dette ascolto.
E subito videro alle loro spalle un vasto specchio, limpido, profondo, che rifletteva in fondo al suo cristallo dorato la luna d’argento e le stelle di fuoco.
Făt-Frumos udì un sordo rimbombare per l’aria e guardò attraverso le nubi. A due ore di distanza ‑ persa nell’alto del cielo – si librava piano, piano per l’azzurro del firmamento la vecchia Mezzanotte, dalle ali di bronzo.
Mentre la vecchia nuotava fuor di sé alla metà del lago rilucente, Făt-Frumos scagliò la mazza tra le nubi e colpì la Mezzanotte sulle ali. Essa cadde a terra come piombo e gracchiò miseramente per dodici volte. La luna si nascose dietro una nube e la vecchia vinta dal suo sonno di ferro, sprofondò nell’abisso fatato e misterioso del lago. E in mezzo al lago spuntò un’erba lunga e nera. Era l’anima dannata della vecchia.
- Siamo salvi! Disse la fanciulla.
- Siamo salvi! Disse il cavallo con sette spiriti. Signore, aggiunse il cavallo, tu hai colpito la Mezzanotte, facendola cadere a terra con due ore d’anticipo ed io sento la sabbia muoversi sotto i miei piedi. Gli scheletri sepolti dai turbini della sabbia ardente del deserto si leveranno per salire sulla luna, ai loro banchetti. E’ pericoloso mettersi in cammino ora. L’aria venefica e gelida delle loro anime morte vi potrebbe uccidere. Piuttosto, coricatevi ed io intanto tornerò da mia madre, per succhiare ancora una volta il latte di fiamma bianca delle sue poppe per farmi di nuovo bello e splendente.
Făt-Frumos gli dette retta. Smontò da cavallo e stese il suo mantello sulla sabbia ancora bollente.
Ma strano … gli occhi della fanciulla si erano infossati nel capo, le ossa e le giunture del volto le erano uscite in fuori, la carnagione da bruna era diventata livida, la mano pesante come il piombo e fredda come un blocco di ghiaccio.
- Che ti succede? Chiese Făt-Frumos.
- Nulla, non mi succede nulla, disse lei con voce spenta; e si coricò sul mantello che gli aveva disteso. Si addormentò; eppure gli sembrava di non essersi addormentato. Sulle pupille, le palpebre si erano arrossate come il fuoco e attraverso ad esse gli sembrava di vedere scendere la luna pian piano, allargandosi nell’abbassarsi verso terra, fino ad assomigliare ad una sacra città d’argento, sospesa nel cielo, che sfavillava splendente … dai palazzi alti, lucenti … dalle mille finestre rosate, e dalla luna scendeva fino a terra una via maestosa, ricoperta di ghiaia d’argento e tempestata di pulviscolo luminoso.
Ma dalle distese deserte si sollevavano dalla sabbia scheletri alti … dal teschio scarnificato … avvolti in lunghi mantelli candidi, dalla trama di fili d’argento rada tanto che attraverso i mantelli s’intravedevano le bianche ossa disseccate. Sulla loro fronte portavano corone fatte di fili di raggi e di spini dorati e lunghi … e in sella a scheletri di cavalli andavano pian piano … in lunghe file … mobili strisce di ombre argentee … e salivano per la strada della luna e si perdevano nei palazzi marmorei della città lunare, dalle cui finestre si udiva una musica irreale … una musica di sogno.
Allora gli parve che anche la fanciulla al suo fianco si alzasse lentamente … che il suo corpo si dissolvesse nell’aria, cosicché non ne restavano che le ossa, che avvolta in un mantello argenteo prendesse anche lei la via luminosa che portava sulla luna. Se ne andava nel tenebroso regno delle ombre, da cui era venuta sulla terra, irretita dai sortilegi della vecchia.
Poi le sue palpebre divennero verdi …divennero nere e non vide più nulla.
Quando aprì gli occhi, il sole era già alto. La fanciulla era sparita sul serio. Ma nel deserto arido nitriva il cavallo bello, lucente, inebriato dalla luce dorata del sole, che vedeva ora per la prima volta.
Făt-Frumos gli balzò in groppa e in un volger di tempo, quanto durano alcuni pensieri felici, giunse al castello di Genar, piantato sulla rupe.
Questa volta, Genar cacciava lontano, a sette giorni di cammino.
Egli mise la fanciulla sul cavallo davanti a lui.
Lei si circondò il collo con le braccia e nascose il capo sul suo petto, mentre le lunghe falde del suo abito bianco sfioravano nel volo la sabbia del deserto.
Correvano così velocemente che sembrava loro che il deserto e le onde del mare fuggissero e che loro stessero immobili. E solo debolmente si sentiva il gatto che miagolava da tutte e sette le teste.
Perso nei boschi, Genar udì nitrire il suo cavallo:
- Che c’è? Gli chiese
- Făt-frumos ti ruba tua figlia, rispose il cavallo fatato.
- Lo potremo raggiungere? Chiese Genar meravigliato, perché sapeva di aver ucciso Făt-Frumos.
- No davvero, rispose il cavallo, poiché è salito a cavallo di un mio fratello che ha sette spiriti, mentre io non ne ho che due.
Genar piantò profondamente gli speroni nei fianchi del cavallo che scorreva scrollandosi … come un turbine. Quando vide Făt-Frumos nel deserto, disse al suo cavallo:
- Dì a tuo fratello che scagli il suo padrone nelle nubi e che venga da me, che lo nutrirò con gherigli di noce e lo disseterò con buon latte.
Il cavallo di Genar nitrì a suo fratello quel che gli aveva detto, ma suo fratello lo ripeté a Făt-Frumos.
- Dì a tuo fratello, disse Frat-Frumos al suo cavallo, di scagliare il suo padrone nelle nubi e io lo nutrirò di brace e lo disseterò con fiamma di fuoco.
Il cavallo di Făt-frumos lo nitrì a suo fratello e questi scagliò Genar fin nelle nubi. Le nubi del cielo divennero di marmo e si trasformarono in un palazzo scuro e bello, mentre da sotto due palpebre di nubi si vedevano due occhi azzurri come il cielo, che scagliavano lunghi fulmini. Erano gli occhi di Genar, esiliato nel regno etereo.
Făt-Frumos rallentò il passo del cavallo e pose la fanciulla su quello di suo padre. Un giorno ancora, e giunsero alla superba città dell’imperatore. La gente aveva creduto morto Făt-Frumos e per questo, quando si diffuse la voce del suo arrivo, il giorno immerse la sua atmosfera in una luce di festa e gli uomini, alla notizia del suo arrivo, attendevano mormorando, come brusisce un campo di grano al soffio del vento.
Ma che aveva fatto in questo tempo l’imperatrice Ileana?
Partito Făt-Frumos, lei s’era rinchiusa in un giardino circondato da alti muri di ferro e lì, coricandosi sulle nude pietre, con la testa su un masso di selce, aveva pianto in una vasca d’oro, messa accanto a lei, lagrime limpide come il diamante.
Nel giardino delle molte aiole, non innaffiato e non curato da alcuno, nacquero dallo sterile pietriccio, dalla calura del giorno e dall’aridità della notte, fiori dalle foglie gialle e dal colore spento e cinereo, come i torbidi occhi dei morti – i fiori del dolore.
Gli occhi dell’imperatrice Ileana, resi ciechi dal pianto, non vedevano più nulla, se non che le pareva soltanto di scorgere nello specchio della vasca, piena delle sue lagrime, come in sogno, l’immagine del suo amato sposo. Ma i suoi occhi, due sorgenti inaridite, avevano smesso di versare ancora lagrime. Chi la vedeva con i capelli biondi e lunghi, spettinati e sparsi come le crespe di un mantello d’oro sul suo seno freddo, chi avesse visto il suo volto di un dolore muto, quasi inciso con lo scalpello nelle sue linee, avrebbe pensato che fosse una marmorea dea delle onde, coricata su una tomba di ghiaia.
Ma come le giunse la voce della sua venuta, il volto le si rasserenò; prese una manciata di lagrime dalla vasca e innaffiò il giardino. Come per incanto, le foglie gialle dei viali alberati e delle aiole si fecero verdi come lo smeraldo. I fiori tristi e scuri divennero bianchi come la perla più luminosa e dal battesimo di lagrime presero il nome di “ lagrimucce”3.
L’imperatrice cieca e pallida passeggiò lentamente fra le aiole e raccolse nel suo grembo una quantità di lagrimucce di cui fece poi, disseminandole presso la vasca d’oro, un letto di fiori.
Allora entrò Făt-Frumos.
Lei gli si gettò al collo, ma ammutolita dalla gioia, non poté che volgere su di lui i suoi occhi spenti e ciechi, con cui avrebbe voluto sorbirlo fin nell’anima. Poi lo prese per mano e gli mostrò la vasca di lagrime.
La luna limpida fioriva come un viso d’oro nella serenità profonda del cielo. Nell’aria notturna, Făt-Frumos si lavò il viso nella vasca di lagrime, poi, avvolgendosi nel mantello che gli aveva intessuto con raggi lunari, si stese per dormire nel letto di fiori. L’imperatrice gli si coricò accanto e in sogno le parve che la Madre del Signore avesse staccato dal cielo due azzurre stelle mattutine e che gliele avesse messe sulla fronte.
L’indomani, risvegliandosi, aveva riacquistato la vista.
Il terzo giorno, l’imperatore si sposò con la figlia di Genar.
Il quarto giorno si dovevano celebrare le nozze di Făt-Frumos.
Un fascio di raggi, scendendo dal cielo, ha detto ai lautari come cantano gli angeli carolando, quando si glorifica un santo e zampilli di onde, sgorgando dal cuore della terra, han detto loro come cantano le Parche quando filano la felicità degli uomini. Così i lautari eseguirono con arte magistrale hore alte ed auguri profondi.
La rosa di fuoco, i gigli d’argento, i mughetti opalescenti come la perla, le umili violette e tutti i fiori si riunirono, parlando ciascuno col proprio profumo, e tennero consiglio a lungo su come dovessero essere i colori splendenti dell’abito da sposa; poi affidarono il loro segreto ad una cortese farfalla azzurra, spruzzata d’oro. Questa andò e volteggiò in molti cerchi sul volto della sposa, mentre dormiva, e fece sì che vedesse in un sogno nitido come lo specchio, in modo che doveva essere vestita. Ella sorrise, quando in sogno si vide tanto bella.
Lo sposo si mise camicia intessuta con i raggi di luna, cintura di perle, il manto candido come la neve.
E si fecero nozze fastose e belle, come non ce ne sono mai state altre sulla faccia della terra.
E poi vissero in pace e serenità per anni molti e felici e, se dovesse esser vero quel che dice la gente, che per gli eroi da fiaba il tempo non passa, allora può darsi che stiano vivendo ancora oggi.
1 La doină e la horă sono due tipiche musiche popolari rumene: la doină è un motivo lento e triste, la horă è un vivacissimo ritmo di danza
2 Musicisti che, secondo un’antica tradizione, sono chiamati a suonare musiche, specialmente popolari, durante i banchetti o le feste campagnole
3 Ovvero “mughetti”, che in rumeno si chiamano appunto lăcrimioare
[traduzione di L. Valmarin pubblicata in “Romania Orientale”, 16, 2003]
Epigonii [Gli epigoni]
Quando i giorni d’oro delle lettere rumene miro,
In un mar mi perdo di dolci sogni sereni
E dappresso mi paion andare alla ventura dolci e fiere primavere,
O notti oceani di stelle su di me vedo spiegar,
Giorni con sulla fronte tre soli, verdi boschi con usignoli,
Con fiumi di canti, fonti di pensiero.
Vedo poeti che scritto hanno una lingua, favo di miele:
Ţichindeal bocca d’oro, Mumulean voce di dolore,
Prale bizzarra natura, Daniil piccolo e triste,
Văcărescu cantar dolce dell’amor la primavera,
Cantemir piani ordire con coltelli e bicchieri,
Beldiman in versi annunciar la guerra nemica.
Lira d’argento, Sihleanu, – Donici nido di saggezza,
Che, di rado accade, a meditar pone
Le orecchie che son assai lunghe o del cervo le corna:
Dov’è il suo mite bove, dov’è la volpe diplomata?
Tutti son svaniti, svanito è tutto su una via senza ritorno.
Svanito è Pann, il sagace Pepelea, arguto come un proverbio.
Heliade edificava con sogni e fole secolari
Il Delta delle sacre biblice, delle amare profezie,
Immerso invero nei miti, di senso pervasa sfinge;
Monte con testa di pietra di tempeste tonante,
Ancor oggi sta enigma irrisolto dinanzi al mondo
A vegliar arsa roccia fra nubi di eresia.
Bolliac lo schiavo canta e le sue catene di rame;
Ai neri vessilli della patria l’arme Cîrlova chiama,
Ombre oggi incanta dalle orditure dei secoli;
E come Byron, destato dal vento selvaggio del dolore,
Pallido spegne della speranza la sacra candela Alexandrescu,
L’eternità decifrando nella rovina di un anno.
Su un letto bianco come sudario giace il cigno morente,
Giace la pallida vergine dalle lunghe ciglia, voce soave –
La vita fu lei una primavera, la morte sventura;
E il suo giovan poeta ebbro la guardava,
E dalla lira note sgorgavan e dagli occhi lacrime amare
A tal guisa il suo canto principiò Bolintineanu.
Mureşanu scuote la catena con la voce sua di ruggine,
Spezza corde ramate con mano infiacchita
Chiama la pietra a risorgere come il mitico poeta,
Ai monti svelle il dolore, agli abeti annuncia il destino
E ricco nella sua povertà come astro tramonta,
Sacerdote del nostro risveglio, profeta dei segni del tempo.
La polvere Negruzzi cancella dalle vetuste cronache,
Dacché nelle muffite pagine si trovan le rumene dinastie,
Scritte dall’antica mano di laici sapienti;
Intinge la penna nel colore di tempi ormai passati,
Di nuovo dipinge ancor le tele abbrunate,
Che mostravano le gesta cruente di principi tiranni, crudeli.
E quel re della poesia, in eterno giovane e lieto,
Che a te una doina intona con le fronde, con il flauto parla,
Con la favola narra –Alecsandri il gioioso,
Infilando perle sul biondo raggio della stella,
Ora i secoli attraversa, un prodigio luminoso,
Ora ride fra le lacrime cantando Dridri.
O un’ombra dolce sognando con candide ali lucenti,
Due occhi due favole mistiche, fonde, bianche,
Il sorriso virginale, con blanda voce soave, lieve,
Sulla fronte le pone superbo diadema di stelle,
Su un trono d’oro l’asside, a dominare mondi ribelli
Amandola all’infinito, scrive: “il sogno di poeta”.
O sognando con la triste doina del prode montano,
Il sogno delle acque profonde e delle rocce canute,
Il sogno delle vetuste selve sugli omeri del colle,
Nel nostro petto desta dell’avita patria la nostalgia,
Rimemora in dolci icone della storia i prodigi,
L’epoca di Stefano il Grande, uro fosco e regale.
…………………………………………………………….
E noi? noi, gli epigoni?… Sentimenti freddi, arpe divelte,
Di giorni infimi, grandi di passioni, cuori vecchi, deformi;
Maschere ghignanti, acconciate su un personaggio nemico;
Il nostro Dio: ombra, la nostra patria: una frase;
In noi tutto è belletto, lustro senza puntello;
Voi nei vostri scritti avete creduto, noi non crediamo in niente!
E perciò la vostra parola era santa e bella,
Dacché da menti era pensata, da cuori sgorgava,
Cuori grandi, ancor giovani, sebbene antichi siate.
Indietro si è voltata la macchina del mondo, con voi il futuro passa;
Noi siamo ancor il passato, senza cuore, triste e freddo;
Noi nulla in noi abbiamo, tutto è falso, tutto è straniero!
Voi, perduti in santi pensieri, dialogato avete con gli ideali;
Noi rammendiamo il cielo con le stelle, imbrattiamo il mare con le onde,
Dacché il nostro è freddo e scuro –è di ghiaccio il nostro mare.
Voi impetuosi avete seguito le idee regine,
Mentre, librando su ali sante fra stelle serene,
Sulla loro luminosa scia voi al pari siete andati.
Con la sua candela d’oro la pallida sapienza,
Col suo regale sorriso, come stella che non tramonta,
La luce della vostra vita sentiero di rose disseminato.
La vostra anima: un angelo, il vostro cuore: una lira,
Che dal vento caldo sfiorata, canti quieti respira;
Il vostro sguardo nel mondo di icone un palazzo scorgeva.
Noi? Lo sguardo acuto che nulla sogna,
I quadri inganna, il sentimento simula,
Guardiamo freddi questo mondo – a voi diciamo visionari.
Tutto è convenzione; ciò che oggi è verità, domani menzogna;
Vana lotta avete lottato, un folle bersaglio avete inseguito,
Giorni d’oro avete sognato per questo mondo amaro.
“La morte succede alla vita, la vita succede alla morte”,
Questo mondo altro senso non ha, altro scopo, altra sorte;
Gli uomini di tutto fanno icona e simbolo;
Dicono santo, bello e buono ciò che senso non ha,
Il loro pensiero scindon in multipli sistemi
E veston di immagini il cadavere triste e nudo.
Cos’è il sacro pensiero? Ingegnosa combinazione
Di cose inesistenti; libro triste e confuso,
Ancor più confuso da chi la cifra vuol trovare.
Cos’è la poesia? Angelo pallido dallo sguardo puro,
Voluttuoso gioco di icone e voci tremanti,
Coltre di porpora e oro sulla terra pesante.
Orbene addio, sante nature visionare,
Che cantar avete fatto l’onda, la stella aleggiar,
Che avete un altro mondo creato su questo mondo di fango;
Noi oggi in noi riduciamo tutto in polvere, domani in rovina,
Sciocchi anche i geni, piccolo e grande, suono, l’anima, luce –
Tutto è polvere… Il mondo è com’è… come lui siamo noi.
(Mihai Eminescu, Epigonii, în M. Eminescu, Poezii. Proză literară, I, Ediţie de P. Creţia, Cartea Românească, Bucureşti, 1978, pp. 28-31))