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Cronologia della Letteratura Rumena - UniFI
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1872

Samson Bodnărescu
Ce poate fi va fi [Cosa potrà essere sarà]
 [traduzione non disponibile]

 

Titu Maiorescu
Direcţia nouă în poezia şi proza română (1872)[La nuova direzione nella poesia e nella prosa rumene]

I

La poesia

ALECSANDRI, EMINESCU, BODNÅRESCU, MATILDA CUGLER, ŞERBĂNESCU, PETRINO

[…]
Ci sono domande che in una società normale non esistono, ma che, una volta nate, si impongono all’attenzione di tutti e chiedono in modo certo una risposta da coloro che curano gli interessi pubblici.
Avrà la Romania un futuro? Si trova ancora nel suo popolo sufficiente forza primitiva per sollevare e portare il fardello della cultura? Poiché la cultura è un fardello che chiede e consuma incessantemente le forze vitali di una nazione. Potrà procedere nell’opera pacifica per la stessa strada su cui la civiltà occidentale ha recato tanto bene all’umanità?
Una parte della risposta dipende dalla direzione degli spiriti della società odierna, direzione la cui manifestazione è la letteratura nel senso più ampio del termine.
Mentre nel nostro mondo politico l’agitazione è giunta al culmine e tutto sembra oscurato nella confusione di alcune tendenze prive di principio, si sviluppa accanto a quei movimenti insaziabili una letteratura ancora giovane e in parte ancora non riconosciuta, ma che, attraverso il suo spirito sicuro e solido, ci dà il primo elemento di legittima speranza per il futuro. Questa speranza diverrà una realtà nella misura in cui la nuova vita, da una parte, si rafforzerà nel suo ambito, mentre dall’altra, sarà compresa e accolta dalla società rumena, soprattutto dalla giovane generazione, in mezzo alla quale viviamo.
Lo stato della nostra letteratura e la direzione dello spirito pubblico fino al 1867 sono state da noi analizzati in una serie di articoli critici precedenti e li sfioreremo nel corso della presente ricerca. Nei contributi critici scientifici avevamo visto la falsità e le immature ambizioni nella maggior parte dei nostri storici, filologi e giornalisti; nella “critica della poesia” avevamo confermato la mancanza di valori di quasi tutti i contemporanei e successori di Alecsandri, Bolintineanu fino a quell’anno.
Per fortuna, nelle produzioni degli ultimi quattro anni si constata una reazione salutare del nostro spirito letterario. La nuova direzione, a differenza di quella antica e decaduta, si caratterizza per il sentimento naturale, per il vero, per la comprensione delle idee che l’intera umanità deve alla civiltà occidentale e allo stesso tempo per la conservazione e anzi per l’accentuazione dell’elemento nazionale. Ci sembra che sia giunto il tempo di attirare l’attenzione pubblica su di essa, nelle pagine seguenti cercheremo di gettare un fugace sguardo su alcuni rappresentanti di questo inizio di liberazione, di questa nascita o rinascita letteraria. Il loro valore non è uguale, ci sono alcuni eminenti talenti fra loro, ci sono molti talenti inferiori, e gli uni e gli altri, tuttavia sono sulla strada naturale e aspirano in buona fede al vero. Da questo punto di vista, tutti insieme meritano una benevola attenzione.
A capo del nuovo movimento è giusto porre Vasile Alecsandri. Capo della nostra poesia letteraria nella generazione precedente, il poeta delle Doine e delle Lăcrămioare, il collezionista dei canti popolari sembrava avesse esaurito la sua vena letteraria. E neanche l’attenzione del pubblico era più rivolta alla poesia; una sterile agitazione preoccupava tutti gli spiriti. D’un tratto, dopo un lungo silenzio, durante il difficile inverno che aveva trascorso nell’isolamento di Mirceşti, e l’inverno ancora più difficile che trascorreva isolato nella letteratura della sua patria, il nostro poeta risorto ci sorprende con la pubblicazione dei Pastelli
[…]
I Pastelli sono una serie di poesie, per la più parte liriche, di solito descrizioni, idilli, tutte animate da un sentimento così puro e forte della natura, scritte in una lingua così bella da essere diventate senza dubbio il più grande tesoro della poesia di Alecsandri, un tesoro della letteratura in generale.
[…]
Ne abbiamo citati due, avremmo potuto citarli tutti: da nessuna parte declamazioni politiche, sentimenti artefatti, estasi e disperazioni di occasione, ovunque la concezione naturale e un’aria fresca di forza e salute spirituale.
Completamente diverso nel suo genere, uomo del tempo moderno, al momento scettico nel pensiero, amante delle antitesi quasi esagerate, riflessivo oltre i limiti consentiti, finora così poco formato che riesce difficile citarlo subito dopo Alecsandri, ma infine poeta, poeta in tutta la forza della parola, è il signor M. Eminescu. Di lui conosciamo molte poesie pubblicate in Conversazioni letterarie, le quali hanno tutti i caratteri mostrati sopra, ma hanno anche il fascino del linguaggio (il segno degli eletti), una visione alta e accanto a ciò (cosa rara fra i nostri) l’amore e la comprensione dell’arte antica.
[…]
L’occasione per delle osservazioni critiche non manca in queste poesie. Venere şi Madonă comprende una comparazione confusa. La donna è stata divinizzata nella Venere antica e poi (da Raffaello) nella Madonna. Allo stesso modo, il poeta su un volto “pallido di una malata ebbrezza” getta “il velo bianco della poesia” e la rende divina. Tuttavia la Madonna non è un’idealizzazione di Venere, né la Venere antica una realtà bruta accanto alla Madonna moderna, e la strofa

Oh, come Raffaello ha creato,

con cui il poeta riassume ancora una volta la comparazione, non la chiarisce meglio, ma indebolisce la poesia con la ripetizione. Originale e ricco di effetto, tuttavia troppo calcolato (recherché, direbbero i francesi) è il passaggio “Piangi, fanciulla?…”
Gli epigoni comprende un’antitesi molto esagerata. Per mostrare la pochezza degli epigoni, si innalzano oltre misura i poeti più antichi, e la lode ditirambica di Ţichindeal e di Heliade difficilmente potrebbe infiammare i lettori più critici di oggi.
La migliore delle tre poesie di Eminescu ci sembra essere l’ultima, Mortua est, un progresso sensibile nella precisione del linguaggio e nella fluidità della versificazione.
Ma anche qui, come nelle altre, ci sono errori che devono necessariamente essere corretti.
Abuso della parola pallida, che forse non dovrebbe essere usata affatto, talora pensieri ed espressioni troppo usuali, molte rime difficili.
Non capiamo, non possiamo accettare questa negligenza della forma. L’indifferenza del pubblico rumeno, che sulla stessa linea dei veri poeti pone anche Tăutu e Sion e tutti quanti, e, d’altra parte, la caduta dell’intera nostra attività intellettuale, che si vede prodotta sotto l’inquietudine di una minaccia permanente, spiega, ma non scusa l’errore.
Proprio per risvegliare il pubblico rumeno dalla sua indifferenza devono essere presentate solo le forme estetiche più pure, e nel mezzo delle agitazioni politiche e sociali l’arte è quindi chiamata a offrirci una riva dove rifugiarci. Quando il moto, altrimenti effimero, di un cuore colmo di sentimenti vuole prendere corpo in forma di poesia, esso proprio per il tramite di questa entra in un mondo dove il tempo non ha più senso. La preoccupazione più preziosa per la chiarezza della forma è allora un dovere del poeta, perché in tal mondo la sua concezione rimanga un’eredità intatta per le generazioni future. E quale poeta, nel momento del vero entusiasmo, non dovrebbe dimenticare i confini dell’attualità e, infiammato dal raggio di una fede spesso illusoria, non dovrebbe innalzare la propria aspirazione verso un’immortalità umana?…
[…]
Ma non seguitiamo più con esempi di questo tipo! Quando appariranno isolati, quando formeranno l’eccezione, chi si sentirà obbligato a sfogliarli come letteratura del giorno! Tuttavia essi oggi costituiscono ancora la maggior parte della nostra letteratura poetica, e nel modo in cui si producono ci sembra essere il sintomo di un male abbastanza importante per meritare una seria attenzione. Il citato signor Petru Grădişteanu era quasi bambino quando è stata pubblicata L’ombra di Mihai Viteazul; allo stesso modo, l’Almanacco di Arad è opera di alcuni giovani immaturi; e i signori Vulcan e Drăgescu, se c’è da giudicarli secondo le pubblicazioni apparse finora, non possono essere lontani da questa età felice; e forse gli autori della maggior parte delle poesie che rovinano la lettura dei nostri giornali politici si trovano nella stessa situazione.
Perché in questo periodo della vita la mancanza di riflessione matura e una vanità sfrenata spingono tanti giovani incompetenti e mediocri a maltrattare la lingua, torturandola con rime e metri impossibili, questo è un fatto generale per cui non abbiamo alcun motivo per credere che i giovani rumeni siano più emarginati o più vuoti dei giovani degli altri popoli dotati di una letteratura. Ma ciò che non si incontrerà presso alcun popolo colto  ciò che accade soltanto da noi è la sfacciataggine con cui tali “peccati di gioventù” – come direbbe il compianto C. Negruzzi – si pubblicano, si impongono in letteratura e sono accettati da una parte del pubblico come poesia; l’incorreggibile sufficienza che mantengono i loro autori e la fiducia con cui sostengono di aver fatto un’azione meritoria per la letteratura della loro patria mentre hanno sottratto fogli di carta ad una destinazione più naturale.
Altrove la società è abbastanza bene organizzata per garantirsi contro simili enormità, il rispetto per il pubblico, il rispetto che hanno saputo conservare i giornali, la coraggiosa sorveglianza di una critica instancabile formano sulla superficie della vita intellettuale uno strato sufficientemente forte per schiacciare e mantenere nell’oscurità che meritano quei prodotti rovinosi. Da noi tuttavia essi si diffondono a volontà e minacciano di falsificare il giudizio del pubblico e annegare le opere meritevoli. Un gran numero di giovani sono infettati dall’epidemia letteraria, abbandonano gli studi regolari e si cingono con le lauree a buon prezzo della fama di un giorno, e per loro è così importante il numero, che oggi l’un l’altro si fanno un’eco abbastanza forte per ingannarsi reciprocamente sul merito delle loro produzioni. La cosa è andata così oltre che fra i nostri giovani chi è solo incapace rimane scrivano nei tribunali e nella polizia, ma chi, all’incapacità, aggiunge l’arroganza diventa “uomo di lettere”, giornalista, poeta, e immediatamente con una lingua e un’ortografia deplorevole è capace di far rimare libertà con legittimità, i suoi colleghi si affrettano a schiudergli “con gioia le loro colonne”, a incoronarlo letterato e “veterolottatore della cultura nazionale”.
Da qui in avanti il tempo e l’attività di questi infelici si consumano nella produzione di libercoli letterari, e una parte del tempo e dell’attività della giovane generazione si consuma nella lettura di questi libercoli.
Qui è il male; da questo punto di vista, la parte malata nel movimento letterario merita di essere osservata, e forse il lettore imparziale non troverà superfluo se di nuovo riveleremo anche il procedere uniforme, il modo come quegli scrittori sfruttano l’attenzione della gioventù e profanano una delle loro più belle aspirazioni.
Il vessillo al riparo del quale si introducono queste vanità personali e immaturità estetiche sono sempre la nazione e la libertà, e così, due idee fra le più alte sono diventate la scala su cui, dopo averla calpestata, salgono gli uomini meno dotati di qualsiasi merito. E allora soltanto vedi il signor Drăgescu che realizza con le sue cacofonie un omaggio “alla libertà e all’indipendenza”, il signor Petric che produce le sue bassezze “come un infante lo stendardo con il motto dei sentimenti nazionali”, il signor Pătărlăgeanu che toglie la sua musa dalle fasce per deporla sull’altare della nazione; e poi vengono nelle loro prefazioni, che sono sempre prive di dignità, o troppo umili, o troppo arroganti (  non sai cos’è più arrogante: l’arroganza o l’umiltà), e ci spiegano quale grande amore per la patria li abbia spinti a dotare la nostra letteratura con il loro nome! E i nostri fogli pubblici, La Famiglia, Il Telegrafo, Il Plebeo, Il Popolo, Il Secolo, L’Armonia e come ancora li chiamano, salutano con entusiasmo il nuovo “confratello’ e, portando più oltre la mistificazione, osano identificare la nazione rumena con queste sue anomalie e gridano che si attacca il “rumenismo” quando si attaccano questi smarrimenti malati della letteratura rumena.
Chi conosce il calibro di simili poeti e giornalisti non si meraviglia del loro comportamento, lo trova naturale e –sinceramente parlando – indifferente. Non è tuttavia naturale che il pubblico rumeno continui a incoraggiarli credendo in tal modo di incoraggiare la letteratura e, d’altra parte, smetterebbe di essere indifferente se vedesse l’influenza che può avere sulla nostra gioventù.
Per questo, l’opposizione energica contro la falsa direzione mostrata in queste pagine ci sembrerà sempre un dovere letterario, e il tentativo di porre un argine contro di loro tanto con la critica delle produzioni cattive, quanto anche il riconoscimento degli scritti migliori, e produrre una sorte di pressione sufficiente dell’opinione pubblica contro di loro, [questo dovere] dovrà essere ripetuto senza cedimento e con forze unite, fin quando riuscirà – presupponendo che prima o poi riuscirà.
È quindi una parte più felice dello stesso obbligo letterario se dall’occhiata alle rime citate sopra passiamo con un contrasto quasi violento a ricordare le opere di coloro che nei loro tentativi, per quanto esigui per ciò che riguarda la sfera delle idee in cui si muovono, mostrano una natura più dotata, sentimenti semplici, ma non artificiosi e producono nel lettore quella serena impressione, che è il vero beneficio delle belle arti. 
[…]
L’arte è serena, deve rimanere serena anche quando esprime la disperazione; e una disperazione che non possa essere separata da riflessioni così buie è segno di una grande infelicità privata, ma non l’occasione di una visione poetica. Non dimentichiamo la benedetta antichità! La morte, che, secondo il sentimento corrotto della simbologia cristiana, è rappresentata dai moderni sotto forma di un orrendo scheletro, era nella fantasia greca e romana un genio bello, con la fiaccola voltata.

II

  La prosa

Odobescu, Strat, Slavici, A. Xenopol, Burla, Vârgolici, i. Negruzzi, Panu, Lambrior, P.P. Carp, T. Rosetti

Essere il regista di un teatro deve essere un lavoro molto piacevole. Ti affidi alla tacita convenzione istituita fra te e il pubblico – da parte tua di ingannarlo, da parte sua di lasciarsi ingannare – e guidi con mano ferma l’illusione degli spettatori. Hai bisogno di un re, getti sulle spalle di un attore un mantello cucito con code di coniglio bianco, gli metti una corona sulla testa e uno scettro in mano, è l’illusione è pronta. Vuoi un ministro, prendi un altro attore, gli cuci sul frac al posto del cuore una decorazione a forma di stella e lo metti a fare gesti un po’ rigidi. Ci vogliono dottori, magistrati, accademici, professori (si capisce: nelle commedie), prendi dei figuranti, gli metti una grande parrucca sulla testa e occhiali sul naso, gli metti una palandrana nera, frac cuciti con filo verde o frac scuciti, e hai raggiunto il tuo scopo.
Con il tempo, dicono quelli che conoscono il mestiere, il regista arriva ad essere molto compreso dalla sua importanza e crede di essere lui la causa principale del successo di un dramma. Il contenuto stesso e lo spirito del dramma gli sembrano una cosa secondaria – per lui qualsiasi dramma è solo un balletto.
Il regista fa ridere con questa sua idea. Ma se una parte importante di una società condividesse questo ridicolo, addirittura nelle questioni più reali della vita pubblica?

Chiedi a qualcuno del progresso della nostra cultura letteraria e artistica: ti citerà le cifre delle statistiche, tante scuole di “belle arti”, tanti conservatori di musica, tanti giornali, tante “esposizioni degli artisti viventi” ecc. Ma se c’è un paese costretto a portare ad absurdum le abituali conclusioni delle statistiche, è il nostro. Tutte quelle cifre non sono interessanti se non per il coraggio di essere inserite nelle rubriche dove le vediamo, e nove decimi del nostro “progresso” si fonda sul reato previsto dall’art. 208 del codice penale, che punisce l’usurpazione dei titoli cui non si ha diritto. La sola realtà in tutto questo ce l’hanno le targhe con le iscrizioni pompose, che il pubblico a volte ha l’ingenuità di prendere sul serio.
Da qui si spiega la condizione spiritosa dell’opinione pubblica in Romania.
Perché il signor X è colto? Perché è professore all’Università. Una condizione più sana richiederebbe che questo signore fosse professore all’Università solo perché è colto. Poiché se non fosse colto, allora la forma vuota della sua apparenza pubblica non lo innalzerebbe, ma lo renderebbe innanzitutto ridicolo e quindi pericoloso.
Perché il signor Y è uomo politico? Perché è il redattore di alcuni fogli di carta che si pubblicano a intervelli regolari. Una condizione più solida richiederebbe che a pubblicare giornali ci fossero solo coloro che sono uomini politici.
E così via.
L’opinione che vediamo talmente predominare nel giudizio delle cose esistenti, la incontriamo, naturalmente, anche nelle cose da creare. Ci manca l’attività scientifica, ricerche originali in tutti i campi della scienza o non esistono affatto, o sono assai poche e assai insufficienti. Ma la compensazione di questa lacuna non si può improvvisare o affidare a commissioni governative: al contrario, tutti i mezzi di cui disponiamo devono essere al momento concentrati verso un insegnamento di base; scuole più numerose e migliori, professori sempre meno ignoranti, gradualmente il gusto della scienza verrà destato fra la gioventù, e poi la speranza che tempo qualche generazione incomincerà anche fra noi una discreta attività scientifica originale. Non così hanno pensato i nostri “veterolottatori”  del progresso rapido, i nazionalisti zelanti con il privilegio esclusivo del fuoco patriottico: una mattina il governo ha decretato e promulgato attraverso il Monitor ufficiale che la cultura della Romania sia affidata alla la Società accademica di Bucarest, ha nominato 21 saggi, divisi in tre categorie: la categoria degli storici, dei filologi e dei fisici. Ma la maggior parte dei membri di questo alto istituto appartengono a una quarta categoria, che l’educazione ci impedisce di nominare.
Non abbiamo attività letteraria e – fatto tipico – romanzi, novelle non si scrivono affatto, si traduce tutto. Anche le poesie sembravano essere scomparse, Alecsandri era isolato, la prosa nella condizione più deplorevole. Lentamente, cambierà anche questo, innanzitutto un po’ di calma politica, se la sorte lo consentirà, quindi correzione materiale, dopo di che – dopo alcune generazioni – anche il risveglio del gusto per le produzioni estetiche. Verranno allora uomini che sentiranno fortemente ed esprimeranno in bella forma ciò che hanno sentito e altri penseranno bene ed esprimeranno ciò che hanno pensato.
Non così crede la maggioranza del nostro pubblico; un suo rappresentante, in un discorso tenuto fra gli applausi dell’Associazione transilvana per la cultura del popolo rumeno ha chiesto con urgenza una storia della letteratura rumena, il Panteon, in cui venerare già gli eroi del nostro spirito, e d’altra parte, con un’incantevole consonanza di idee, il governo rumeno ha riconosciuto la gravità della necessità e – mentre la più parte dei villaggi non ha dove insegnare a leggere e a scrivere – ha fondato all’Università la cattedra di storia della letteratura rumena.
Tutti conosciamo l’importanza del teatro per un popolo, tutti sappiamo, parimenti, di essere privi di questo elemento culturale. Tradurremo quindi gli eminenti drammi da altre letterature, incoraggeremo quelli cattivi e ci preoccuperemo, a tempo debito, di formare veri attori…decine e decine di anni passeranno prima di poter costituire una sola compagnia di attori degni di questo nome. Ma da Pest ci è venuta una grandiosa provocazione, sottoscritta da uomini celebri, proposta in numerose assemblee, condotta da un comitato della nazione: si tratta di raccogliere denaro per costruire innanzitutto le case del teatro. Da qui a lì, le cose procederanno rapidamente e ben: le mura le avremo, i drammi verranno.
Nel contrasto mostrato fin qui è insita la spiegazione più chiara della nuova direzione opposta a quella antica. L’antica direzione dei nostri uomini pubblici è per lo più orientata verso le forme esterne; la nuova e giovane direzione cerca innanzitutto il fondamento interiore, e dove non ce l‘ha e fin quando non ce l’avrà, disprezzerà la forma esteriore come falsa e indegna.
Dopo questa spiegazione introduttiva cercheremo di seguire più da vicino le aspirazioni di quest’ultima e poiché qui parliamo di letteratura in prosa, divideremo la nostra ricerca, secondo le sue specie, nella ricerca scientifica e in quella estetica o almeno stilistica. Citazioni delle opere degli autori, come abbiamo fatto nello studio sulla poesia, non possono aver luogo qui: l’estensione delle opere in prosa si oppone a questo. Dobbiamo limitarci a citare solo il titolo degli scritti e a portare alla luce gli elementi comuni che li accomunano in un’unica e medesima direzione.
[…]
La caratterizzazione di questi autori inizi però con una riserva, senza la quale le nostre osservazioni parrebbero esagerate. Nessuno degli scritti citati, visto secondo la prospettiva della scienza generale, è davvero di importanza straordinaria; nessuna creazione nuova, nessun soffio di quella potente originalità, che dalle vette della cultura del secolo accompagnano gli elementi dati verso una nuova combinazione o trovano nell’intuizione primitiva una verità fino allora non colta dalla comprensione umana; niente di tutto questo si trova negli scritti rumeni fino a questo momento, e niente si può trovare per il momento. Poiché uno sviluppo così alto dell’opera scientifica presuppone gli altri strati di cultura del passato, attraverso cui si sarebbe potuto formare il terreno fertile per il suo nutrimento e la sua crescita.
Il signor Odobescu, Lambrior, Strat e gli altri sono quindi rappresentanti della nostra letteratura scientifica solo nei limiti angusti in cui una tale attività è stata possibile per il livello di cultura in cui ci troviamo. Ma in questi limiti le loro opere, a differenza delle altre analoghe della nostra letteratura, si fondano su basi solide e sono importanti per due caratteristiche positive degli autori: la conoscenza che essi hanno dello stato della scienza odierna riguardo alla materia di cui si occupano e la sincerità con cui presentano il risultato delle loro ricerche.
Poiché per noi, che siamo nei pressi di una cultura superiore, qualsiasi domanda scientifica è prima di tutto una domanda di coscienza, e la coscienza ci impone qui due obblighi: primo, studiare la materia di cui scriviamo finché nessuno dei principi fondamentali, cui è giunta l’Europa colta non ci rimanga nascosto, per trovarci in tal modo in quell’ambito al livello della cultura, o, con un’espressione francese, per essere nella sua corrente. Leggete la dissertazione del signor Odobescu sui canti popolari, o gli articoli filologici del signor Burla, o le critiche del signor Carp ecc., immediatamente sentirete la sicurezza delle fondamenta su cui l’autore innalza la sua costruzione, per quanto ridotta, e il vantaggio che potete trarre dalla lettura di un lavoro che riassume in sé il risultato del progresso della scienza in quella materia. E questo vantaggio è grande proprio quando l’opinione dell’autore è sbagliata; poiché anche in questo caso essa ha in sé il proprio correttivo, quando mostra le fonti da cui proviene.
Il secondo obbligo di coscienza è: avere sufficiente amore per la verità per dire con sincerità ciò che abbiamo scoperto nel bene e nel male.
[…]
Le due caratteristiche di cui abbiamo parlato ora si trovano in migliaia di libri tedeschi, inglesi, francesi, sono addirittura la regola degli autori scientifici nei paesi dell’Europa colta. Da noi, però, sono eccezioni, e un’eccezione così rara, che esse soltanto sono state in grado di segnare una vera direzione nuova, opposta a quella fin qui abituale. Il merito degli autori di cui ci occupiamo è tanto più grande in quanto essi conservano quelle caratteristiche all’interno di una vita pubblica in cui il primo titolo per ambizioni esorbitanti pare essere la mancanza di conoscenza di causa, e la prima missione, l’inganno dell’opinione pubblica.
Questo giudizio della nostra attuale vita non è esagerato, tutti coloro che hanno esperienza e buonafede lo condividono, e se nelle righe successive cercheremo di aggiungere ancora una serie di prove per rafforzarlo, lo faremo nella certezza che proprio attraverso ciò si comprenderà tanto più chiaramente in cosa consista l’importanza della nuova direzione, come qualcosa che è stato determinato innanzitutto dalla necessità istintiva di sfuggire alla china su cui ci hanno abbandonato gli antichi “veterolottatori”.
La gioventù del giorno d’oggi, da cui dipende l’orientamento futuro, deve capire finalmente dov’è la verità e dov’è l’errore in questa lotta di idee; di fronte a essa deve essere provata l’accusa che abbiamo rivolto contro la maggior parte dei nostri pubblicisti letterari e scientifici, l’accusa della mancanza di coscienza tanto riguardo la conoscenza di causa, quanto riguardo la volontà di dire la verità nelle questioni di cui si occupano. Ritorneremo quindi alla prova dell’accusa con una nuova serie di esempi che, nel loro insieme, speriamo che facciano un’impressione sufficientemente profonda su qualsiasi intelligenza integra.
Il primo esempio lo troviamo nella Società accademica di Bucarest.
Questa accademia delle scienze, accanto ad altre missioni, si crede innanzitutto chiamata a stabilire e promulgare le regole della lingua e della scrittura rumene e a sostenere a tale riguardo l’unità nazionale. Secondo noi, quella fiducia è illusoria: ma diciamo che sia fondata.
[…]
Il compito naturale di questa Accademia era raccogliere il tesoro della lingua rumena così come è stata parlata e come si parla in tutte le province abitate dai rumeni – un lavoro molto importante, per il quale la nomina dei membri di diversi paesi sarebbe stata opportuna e che i membri stessi, di buon grado e con zelo, avrebbero potuto compiere. Al posto di questo semplice lavoro di onesta raccolta, gli accademici si sono arrogati l’autorità di pronunciare come sarebbero dovute essere la lingua e la scrittura e hanno incominciato a torturare l’ortografia e il discorso, sentenziando riguardo alla fonetica e all’etimologia, riguardo alla “corruzione eufonica” e al radicalismo nella derivazione. Ma se la maggioranza dei membri dell’Accademia era in condizione di compiere il modesto servizio, ancorché molto importante, di raccoglitori di parole, ad essi manca qualsiasi competenza per pronunciarsi nella controversa materia della scienza filologica e per prescrivere alla loro nazione come parlare e come scrivere in opposizione all’uso comune, e se in ogni caso per simili questioni alzano le mani per il si o il no, dimostrano mancanza di coscienza. Perché stupirsi di quelli oscuri, quando lo stesso signor Cipariu, altrimenti eminente rappresentante della corrente etimologica fra i rumeni, nel rispondere nel suo Archivio filologico a delle obiezioni linguistiche che gli avevamo fatto in Accademia, affermò di non conoscere gli scritti linguistici di Max Müller e dopo tanto tempo non aveva ancora provato a conoscerli. Se il signor Cipariu – ecco cosa possiamo rispondere a ciò – non conosce Max Müller, il danno non è di Max Müller.
[…]
Passiamo ora ad un altro ordine di idee. Non conoscere la cosa di cui parli è un piccolo grado di errore in confronto all’abitudine di nascondere la verità, di diffondere intenzionalmente notizie false e non rettificarle mai. Questo, tuttavia, è il vizio tipico della pubblicistica, in particolare dei pubblicisti rumeni, e per ciò la nostra stampa, con rare eccezioni, sebbene tutti i “veterolottatori” contribuiscano alla sua conduzione, è giunta a perdere il proprio valore ed è diventata oggetto di disgusto per molti uomini ragionevoli.
Un esempio abbastanza forte – e con esso incominciamo la dimostrazione dell’accusa – è il grido di “cosmopolitismo” con cui, da qualche anno in qua, la stampa rumena, non quella di basso rango, è solita combattere la giovane direzione di Iaßi. L’attacco è stato condotto in primo luogo in un solenne discorso pronunciato nel 1869 presso la Società accademica di Bucarest da parte del signor Bari†, che, con la chiarezza e soprattutto la sincerità del linguaggio, per cui è famoso, si è pronunciato contro la nostra direzione “cosmopolita”. Il signor Misail, par nobile fratrum, lo ha assecondato immediatamente sulla strada giornalistica, in quell’occasione applicando nei nostri riguardi tutta l’eleganza del suo stile.
Da qui in avanti, La colonna di Traiano, La tromba dei Carpazi, La federazione, L’unione liberale, La rivista contemporanea si sono affrettate tutte a mettere la nota sensibilità e cortesia del loro linguaggio al servizio della santa crociata contro il cosmopolitismo, che il giornale Prahova chiama nell’ultima riga “cosa immonda”.
Molto bene! Peccato solo che tutto questo gridare è una mistificazione dell’opinione pubblica. La verità è che forse nell’intera Romania, ma certamente almeno in “Junimea” di Iaşi, non esiste cosmopolitismo, se con questo si intende la bella utopia di cercare la felicità dell’umanità in una sua costituzione comune negando l’individualità nazionale. Nessun articolo delle Conversazioni letterarie in genere, non una sola proposizione scritta o pronunciata da me in particolare sostiene il cosmopolitismo; tanto io, quanto anche gli altri membri di “Junimea” di Iaşi siamo partigiani dell’idea della nazionalità e ci siamo sempre preoccupati in questo senso.
[…]
Se nelle righe precedenti ho deplorato la mancanza di amore per la verità nella maggior parte dei nostri pubblicisti, non è stato per la paura che le loro invettive possano rimanere forti nei nostri confronti: poiché simili frecce si ritorcono sempre contro colui che le scagliate.
La causa della deplorazione è un’altra. È il sentimento dell’importanza che ha la critica in qualsiasi manifestazione della vita pubblica e il dispiacere che la nostra giovane direzione sia stata privata di un simile controllo, per quanto aspro, solo se fosse stato vero. Migliaia di insulti e calunnie abbiamo ricevuto, ma mille insulti non fanno ancora una sola critica, e una sola critica ancora non l’abbiamo ricevuta.
Gli uomini che dall’infanzia eravamo abituati ad ammirare a capo del nostro movimento nazionale, invece di venire, con l’esperienza e la maturità che avevano, ad illuminare e moderare con benevolenza le nuove aspirazioni, sembrano aver considerato la vita pubblica del popolo rumeno come un loro dominio esclusivo, e così, dimenticando la dignità della loro età, hanno iniziato a comportarsi contro di noi nel modo mostrato prima attraverso tanti spiacevoli esempi.
Per colpa loro la nostra vita pubblica è giunta a tal punto che la disillusione è il segno di riconoscimento per gli uomini di buona fede. Per colpa loro la gioventù è costretta a cercare da sola la strada del futuro: in una combinazione innaturale, essa deve associare l’energia della sua età alla prudenza dell’altra età e, vecchia prima del tempo, assumersi il doppio peso che in un tempo felice divideva con diverse generazioni.
Ci manca la compagnia dei saggi nella ricerca della verità, ci manca il controllo dell’esperienza e la critica degli uomini più maturi.
Tuttavia, chi senza critica può procedere sicuro? E da quando la mancanza di lotta leale non sarebbe pericolosa? Puro è il fuoco che porti sull’altare; ma sarà pura anche la fiamma – solo la traccia può scegliere, la traccia che aspetti mentre intanto lavori con il cuore diviso fra la fiducia e il dubbio.

B

Fra quelli nominati in precedenza c’è stata tuttavia un’eccezione; c’è stato un uomo il cui cuore era rimasto abbastanza giovane per continuare insieme alla nuova generazione il lavoro comune: Vasile Alecsandri. E proprio il suo esempio dimostra quanto bene possa fare l’autorità matura combinata alle aspirazioni della gioventù.
Vasile Alecsandri, con scritti e consigli orali, ci ha rafforzato nella tendenza a emancipare la nostra lingua dalla pedanteria dei filologi e di accoglierla così come scaturisce, come una fonte limpida, dalla mente del popolo. Egli ha dato alla nostra opinione teorica il sostegno della sua fama letteraria, e se i tentativi di correzione linguistica riusciranno, una gran parte del merito andrà a lui.
Con questo passiamo alla parte successiva della nostra esposizione: la prosa estetica nella giovane direzione, cioè la prosa considerata nella sua forma, nella lingua e nello stile. Le copie sulla natura del signor Iacob Negruzzi, Le novelle del signor A. Odobescu, gli studi dei signori Vîrgolici e Lambrior, Le novelle del signor Nicu Gane sono esempi per la spiegazione delle righe successive.
La forma della lingua rumena nella maggior parte dei suoi scrittori era ed è gravata dallo stile dei linguisti transilvani. L’influenza della scuola transilvana sul nostro stile è stata tanto più naturale in quanto ogni nostro inizio di cultura – buono, cattivo, tant’è – lo dobbiamo a loro. Le scuole (Lazår, Laurian), la scienza (Cipariu), i giornali (Bariţ e Mureşanu) sono stati avviati o almeno sostenuti da loro, merito conosciuto e riconosciuto dei nostri confratelli al di là dei Carpazi. Ma insieme a questo, i transilvani ci hanno portato anche una consuetudine errata della lingua e dello stile, e il nostro dovere, è ora, dopo aver accolto l’influenza buona, disfarci dei loro elementi cattivi.
Lo stile dei transilvani, con poche eccezioni, è dettato dalla scuola etimologica. Tuttavia, lo stile etimologico, anche quello dei migliori, è pedante e difficile, e ciò che nei maestri poteva definirsi talora distrazione, diviene negli scolari un sistema utilizzato a bella posta, quasi un principio per rendere oscura la lingua.
Per una sana testa pensante è sufficiente lo stile dei “cipariani” per condannare il sistema da cui è potuto scaturire. Poiché un sistema linguistico che produce la confusione e l’appesantimento della lingua non può che essere falso. Simili teste tuttavia sono sempre rare, e poiché temiamo che la maggior parte dei “cipariani” abbiano perduto la possibilità di giudicare cosa sia una lingua chiara e cosa sia una lingua confusa, ritorniamo di nuovo, anche se solo brevemente e da un altro punto di vista, alla critica del sistema etimologico.
I “cipariani” e in questo i fogli e i libri scolastici della Transilvania e dell’Ungheria sono ancora tutti “cipariani”, seguono nella loro lingua due regole: prima la regola dell’etimologia e secondo la regola dell’analogia delle parole, quest’ultima protetta anche dai “fonetisti” della Bucovina.
Per ciò che riguarda la corrente etimologica, si sa che essa è tanto un sistema ortografico quanto ancor di più un sistema linguistico. Essa vuole che la forma più antica delle parole sia anche la migliore, essendo più vicina a quella latina, e dichiara i cambiamenti eufonici che il popolo rumeno ha fatto nel tempo, spuri, cioè falsi, corrotti, dobbiamo espungerli, conservando la regola della grammatica e dell’etimologia del signor Cipariu.
[…]
La lingua è un essere organico, e non una figura geometrica, essa può avere grazia anche senza avere simmetria e regola paradigmatica, essa chiede la forma e il libero sviluppo dell’albero naturale e non ammette la sottomissione pedante, come cercava di fare Luigi XVI con i piccoli meli della terrazza di Versailles, costretti in piramidi regolari e orribili.
Che nella nostra lingua ci siano molte forme non fissate, questo lo riconosciamo; che una simile condizione della lingua è bene che cambi e cambierà, anche questo ci sembra certo. Ma il cammino del cambiamento e della riforma non è la l’attitudine a legiferare di un’accademia o di un singolo filologo. Da noi la diversità della lingua deriva dalla mancanza di una poesia e di una prosa riconosciuta dai classici fra tutti, e di conseguenza l’unificazione può nascere solo insieme alla nascita di quella poesia e di quella prosa che sarà la prosa degli autori estetici, non la prosa filologica.
[…]
La direzione nuova ha fatto quindi un passo verso il progresso quando, sbarazzandosi di quei sistemi sbagliati, ha rivolto la nostra attenzione verso una lingua più adatta al modo odierno di parlare del popolo, verso la bella lingua in cui scriveva Constantin Negruzzi e che non abbiamo bisogno di abbandonare, per smarrirci dietro le confusioni filologiche. Molte domande e dubbi nascono, naturalmente, anche qui. (…) È bene rendere più fresca la parlata antica nell’estensione che ne fa Lambrior? Queste sono domande la cui risposta ce la darà istintivamente quello scrittore che la natura avrà dotato con il dono di conoscere i fili di cui è intessuto il linguaggio del popolo rumeno. A noi, agli altri, non rimane che seguire, lontani da ogni costrizione teoretica, il nostro senso linguistico, sapendo bene che l’ultimo giudizio non potranno pronunciarlo che i nostri discendenti.
Nel concludere questa esposizione, speriamo che con essa si sarà chiarita meglio la differenza fra quella che è stata chiamata la nuova direzione e quella più antica.
Spiegare questa differenza ci è parso un tema molto importante. Poiché la posizione morale in cui si trova il popolo rumeno è forse unica nella storia, in quanto per la sua difficoltà  richiede tanta più attenzione sul suo movimento letterario, come se questo fosse lo specchio di quella posizione.
Quando nei pressi di un popolo si trova una cultura più alta, essa esercita necessariamente un’influenza su di esso. Poiché uno dei segni dei vertici della cultura è proprio abbandonare il cerchio marginale degli interessi individuali e, senza perdere l’elemento nazionale, scoprire e formulare idee per l’intera umanità. La loro scoperta e realizzazione è stata molte volte il risultato delle esperienze più dolorose; ma una volta compiuto il sacrificio, esse si riversano ora sull’umanità e la chiamano a condividere la loro munifica beneficenza. A questo appello non puoi opporti: unirsi nei principi di cultura è la sorte obbligata di ogni popolo europeo. La domanda è solo se lo può compiere come compagno paritario, oppure come schiavo sottomesso; se la può compiere sfuggendo e rafforzando la sua autonomia nazionale o piegandosi sotto il potere straniero. E questa domanda si scioglie solo con l’energia della vita intellettuale e economica del popolo, attraverso la buona volontà e la rapidità con cui si comprende e si assimila la propria cultura nella giusta attività.
Noi, rumeni, siamo stati sottratti dalla sorte all’improvviso dall’oscurità della Turchia e siamo stati messi di fronte all’Europa. Insieme alle foci del Danubio si sono aperte anche le porte dei Carpazi, e attraverso di esse sono entrate le forme della civiltà dalla Francia e dalla Germania e hanno ammantato la vita pubblica del nostro popolo. Da questo momento abbiamo perduto il vantaggio della condizione di barbari senza godere ancora della bontà della condizione civilizzata.
Se fossimo sicuro su un’isola, se ci fosse possibile attraversare ogni cambiamento della vita pubblica senza essere minacciati dall’esterno addirittura nella nostra esistenza, potremmo aspettare in pace la soluzione dei problemi, lasciando al tempo futuro il peso di sollevare pian piano le difficoltà di oggi.
Ma questa non è la nostra situazione. Il tempo dello sviluppo ci è stato tolto.. e il grande tema è sostituirlo con doppia energia. Tutto ciò che oggi è forma vuota nel nostro movimento pubblico deve essere trasformato in una realtà sentita e, poiché abbiamo introdotto un grado troppo alto della vita esteriore degli stati europei, dobbiamo innalzare il nostro popolo con tutte le forze fino alla comprensione di quel grado e di un’organizzazione politica adatto a lui.
Per questo si chiede innanzitutto una cultura solida delle classi alte, da dove scaturisce il movimento intellettuale.
Qui tuttavia è la difficoltà! Votare, governare, scrivere giornali, tenere lezioni fuori da ogni controllo, essere membro di accademie e professore universitario, questa forma della cultura occidentale si addice soprattutto ai nostri “veterolottatori” quando la forma si incontra anche con un segno corrispondente del bilancio dello stato. Ma realizzare con la stessa serietà il loro compito intellettuale, questo non gli si addice, allora si indignano, dicono che siamo ancora in una condizione impreparata, che assomigliamo alla Francia di 300 anni or sono, che i meriti di Şincai, Asachi, Bariţ, Tăutu, Laurian, devono essere guardati da una prospettiva storica secolare!
Ma se somigliate alla Francia di 300 anni fa, perché prendete le forme della cultura degli ultimi anni?
Qui è la contraddizione pericolosa. Non è possibile che un popolo godi delle forme esterne di una cultura più alta e segua allo stesso tempo all’interno inclinazioni barbare. E poiché tornare indietro è impossibile, non ci rimane per la nostra esistenza nazionale altra alternativa che chiedere alle nostre classi colte tanta coscienza quanta ne serve per avere anche tanta scienza quanto se ne potrà avere.
Ecco perché la lotta senza tregua contro l’ignoranza presuntuosa e contro la falsità ci è sembrato il primo obbligo e perché non abbiamo potuto accogliere il punto di vista di coloro che sono avvezzi ad uno sguardo più mite e si accontentano di una lunga attesa per la correzione futura.
I rumeni, anticipando le forme di una cultura assai alta, hanno perduto il diritto di commettere errori imperdonabili e, allontanati dalla condizione più normale dello sviluppo graduale, per noi l’età dell’oro del patriarcato letterario e scientifico è scomparsa. La critica, finanche amara, ma sia solo giusta, è un elemento necessario per la nostra conservazione e il nostro progresso, e con qualsiasi sacrificio e in mezzo a qualsiasi rovina deve essere piantato il segno della verità.

[traduzione di A. Tarantino]

 

(T. Maiorescu, Direcţia nouă în poezia şi proza română (1872), în Id., Critice, Minerva, Bucureşti, 1989, pp. 131-184)

 

Iosif Vulcan
Cînd am văzut pentru prima oară pe Heliade [Quando ho visto per la prima volta Heliade]

 [traduzione al momento non disponibile]

 
ultimo aggiornamento: 29-Mar-2007
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