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Cronologia della Letteratura Rumena - UniFI
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1856

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Costache Conachi
Amoriul din prieteşug [L’amor dall’amicizia]

Ho amato, udite cuori, la parola vostra illustre
Che vi soggioga al dolore e sensibili vi fa,
Che vi lega, vi unisce senza forza alcuna
E vi dà in tal vita altra vita ancor più viva.
Ho amato e so il gusto dell’amor smisurato,
Ascoltate, ché per mia bocca amor vi parla.
Questo imperatore del mondo, signore di piacer,
Tiranno nell’ostacolo e clemente nel dolore,
A voi non chiede la gloria di vano amore,
Che nasce e passa come sogno d’illusione,
Odia, fugge e lascia il cuor confuso,
Ma come farfalla alata di fiore in fior,
Solo assaggia, la natura sfoglia degli amanti
Presto per lasciarli senza diletto.
Egli chiede, vuole e da voi brama quell’amor
Che di due un esser solo fa.
E empiendoli di fuoco che li arde con piacere,
Il diletto ne accresce nell’affanno e nel dolore.
Ma che una cosa così grande e di tal letizia,
Voi, cuori, dalla fragile natura, otteniate invero,
Credete a me può esser solo con lunga filza
Di pene, affanni, vinti con pazienza,
Tanto tempo, tenacia, premure e incertezze,
Veglia, sospiri e lacrime, pianti, suppliche e sforzi,
Sofferenze, crudeli desii, velenosi sospetti,
Passi disperati, passi smisurati,
E su tutto ciò, ancor a compimento,
Si chiede amicizia fedele e amore.
Amicizia, dono dei cieli, che in un uomo assai devoto
Da uno sguardo nasci e ti unisci con fiducia,
Amor vivo e potente accendi per tua intercessione
Quando avvolgendo due cuori in un’idea e in un’unione
E solo con l’usanza averli resi avvezzi
Alla simpatia, alla pietà, all’amore e alla fiducia,
D’un tratto, li sottometti, al gran mutamento
Dall’amicizia dolce all’ infuocato amore.
Ah, credete a me, cuoricini, una tale ascesa
Da una piccola alla grande sciagura
Innalza l’uomo agli angeli e alla divinità
E lo fa vivere per gustar del paradiso la felicità,
Ma per giungere a quell’alto grado,
Quante fatiche, quanti affanni e quanti pianti sospirosi!
Cuori, la sorte impone di pazientar con virilità,
Ascoltate, cosa vi dirà l’infelice Zulnia.
Zulnia più bella dell’aurora,
Come giglio alta fra i fiori, con occhi mori di nerezza.
“Misera me, diceva fra le lacrime, gemendo,
Quale invisibile forza e rovina della quiete
Si leva nel sentir del mio misero cuoricino
E mi brucia notte e dì con mestizia e affanno?
Con gli occhi vedo l’abisso, la mia abiezione,
Ma li vedo con diletto e li accetto con letizia.
Ah, che l’amicizia sola abbia tal natura
Di confondere, accendere e anche dar diletto?
Io, misera, sapevo di esser legata
Solo con amicizia e limpido cuore
All’uomo che con decoro m’ha amato e m’ama,
Ma, ahimè, ché il dolore che mi cagiona
I segni non ha di un amore mite e misurato,
Ma è come la saetta che accende un amore infuocato!
Giorni, notti trascorro pensando al dolce volto,
Ma sempre mi porta e svela l’illusione,
Né pace alcuna l’anima mia trova
E sento che ognor la passione che mi divora
S’accosta e avvolge tutti i miei sensi,
Sicché nulla al mondo consolarmi può.
La mia vita è un mare che non s’acquieta,
Lotta l’amicizia, tempeste l’amore scatena.
Vorrei morir, ma anche la morte vorrei con quella forza
Per andare nell’aldilà con il mio dolce dolor.
Ma, ahimè, fin dove tanto pazientar!”
Così, da dolori catturata nel suo grande affanno,
L’inconsolata Zulnie, nel suo sospiro arsa,
Appassisce come un fiore che all’alba dischiuso
Senza la vita della fresca rugiada
Si scioglie con ardore all’arsura del sole.
Ma non sapeva che in un canto, con pari dolore,
Geme e piange, senza alcun conforto,
Ikanok, l’amico con virtù e fede,
Che, sapendo come l’amore non tolleri sconfitte,
Colla distanza cercava di scampare ai suoi strali
E fuggiva, ma, ahilui, ché la natura delle passioni
Suddita non è della fuga, né della distanza,
Del tempo, dei fingimenti, né di alcun mutamento,
Ma attraverso tutto penetra, viene e vince,
La terra ferma tutta avvolge e il mare previene.
“Ah, diceva fra le lacrime, povero me, povero me,
Come celar ancora l’amore che a Zulnia mi ha soggiogato?
E ancor si può celarlo quando brucia e mi strugge,
Quando gli affanni carpiscono l’anima e il corpo?
Insorpottabile segreto, vinco ogni indugio,
Proprio come alla fine di questa vita passeggera,
Quando la morte con la crudeltà si mostra, si annuncia,
Dinanzi all’infelice malato che ai vivi strappa.
Ancor peggio e ancor di più, ché ogni fine
Concede all’uomo di dire quanti dolori ha,
Ma a me concesso non è tanto conforto,
Ma devo sopportarli e morir tacendo.
Ah, l’amicizia che tutti lodano
E che tutti inseguono, ma di rado trovano,
Per me è affanno, biasimo e tormento,
Ché mi getta e mi tiene in miserevole impaccio,
O esser amico degno e ritrarmi da Zulnia,
O svelarle l’amor che con tanta tirannia
Mi ha colto e mi opprime, da non aver più respiro,
E così, ordunque, per me, l’amicizia è periglio.
Ah, l’amicizia, signore, sacro vincolo,
Che si rafforza con gesta, e non con ciance,
Mi perdonerai se abbandono per un’amata?
Ma cosa fare, cieli santi, quando il cuor trafitto
Dall’assalto dell’amore e dalla sua fiamma arso
Deve o amare, o indugiar e morire!”
In tal guisa trascorrevano questa vita d’affanni
Fra gemiti e sospiri entrambi per un sol motivo
E l’un dall’altro fuggivano pensando che colla distanza
All’amore cagioneranno difetto e detrimento
Ma non sapevano che poi un’occasione di incontro
Mille volte più lo infiamma di orribile furore.
“Fuggi, Zulnia, fuggi, Zulnia, grida lui, carico di dolore,
Che di non amarti, amor, non ho più forza.”
“Allontanati dai miei occhi, rispondeva la sventurata Zulnia,
Che ognidì a te so ancor di più di esser schiava.”
E così seguitando di indugio in indugio,
Entrambi in un dolore si struggevano
Finquando, una volta, così come sempre accade
Quando l’amore vuole, per color che ama
È giunta felice l’ora del desiato incontro,
Perché al suo santo voler nulla è ostacolo.
In un luogo desolato e segreto, da poco scoperto,
Dove per guarire gli schiavi d’amore vanno a bella posta,
Dove la natura rattristata e afflitta
Ha riversato tutto ciò che cagiona mestizia,
Monti alti fino alle nuvole, torrenti fra rocce scroscianti
Boschi di alberi selvaggi fra pietre rovinate,
Dirupi su dirupi, abissi oscuri,
Dove i lamponi e le fragole e la mora bella
Crescono liberi dagli uomini, ché solo un sentiero
Devono gli sventurati malati passar con molto timore,
Lì, lo sventurato Ikanok, lì, la sventurata Zulnia
Si sono incontrati, ah, chi può scrivere del loro incontro!
Qualsiasi penna apparisse, qualsiasi voce profferisse,
Niente di simile può immaginare!
Lacrime, gemiti, sospiri, di quando in quando un soffio,
Perpetui deliqui che spezzan la vita,
Effusioni, abbracci al riparo del volto amico,
Sguardi rapiti e cadere allacciati,
Vegliar notte e dì, pensieri malinconici,
Oblio di tutto ciò, infine, una morte viva,
È stata la loro vita, finquando, impaziente,
Ikanok, con poco animo, cadendo ai suoi piedi,
“Ah, Zulnia, ti amo, le ho detto, pieno di vergogna.
Ti amo, cosa posso far se sento che muoio per te,
Quando mi struggo, quando di soffrir non ho più forza,
Quanto tutto in me s’è mutato in dolore?
So che a me l’amicizia opporrai quella grande,
Ma proprio l’amicizia ha acceso il mio fuoco più forte,
Ahimé, lei e l’amore, unendosi in un esser solo,
Mi tormentano e mi uccidono con accresciuta passione,
Non ho scampo, non ho riposo, ho il petto che vibra,
Vedo torrenti di lacrime, ai tuoi piedi raccogliersi.
Non mi compatire, non mi abbandonare al periglio,
Abbi compassione, ché sei la mia salvezza!
Tu sei Dio di pietà, tu sei stella di resurrezione,
Lenisci e redimi il mio triste dolore,
Ché star ancora al mondo non posso senza il tuo amore!”
Ciò dicendo, ai suoi piedi è caduto esangue,
È caduto, ma anche il suo cadere è stato segno di riverenza,
Ché si è trovato a baciar colla bocca il suo piede.
Trepida, la sventurata Zulnia, guarda, vede, atterrisce,
Vuole esser d’aiuto, ma non può, ché la forza le manca.
                “O, me meschina, a cosa son giunta questa volta!”
Ha gridato con quel dolore che un cuore franto
Da saette e coltelli esala gemendo
Dall’ora in cui è ferito a quella in cui muore.
“O, me misera, io sono la sola causa
Di pene, affanni e di morti senza colpa!
Ah, anima di pietra, egli muore e tu ancor indugi?”
Allora, come una folle fugge di roccia in roccia
E scruta, raccoglie erbe, prende acqua e lo bagna,
Ma invano, ché l’amore rimedio non accetta.
“Cosa fare, povera me, grida, urla di dolore,
Signore, aiutalo, che io non ho più forza!”
Madida, di lacrime bagnata, scalza e scarmigliata,
Fugge, viene, si aggira come una disperata.
Folle, povera lei, alla terra e al cielo guarda,
Vuole gridare, ma anche la voce d’un tratto le si spezza.
Si accascia e cade su di lui, esangue,
Dalla sua sventura uccisa, dalla sua sventura distrutta.
A tal guisa una tortorella, accanto alla compagna morta,
Né vola, né si muove, ma attende la triste sorte,
Finché l’empio cacciatore uccide
Anche lei accanto al corpo dell’amata sua sorellina.
Che scena di mestizia per cuori sensibili
Questo corpo disteso in terra e privo di soffio,
Quegli occhi neri come mora, quella bocca come rubino,
Quel seno come rosa, quella nuca bianca come giglio,
Quelle mani come neve, quelle esili braccia
Un istante per trasformarsi da vita in non vita!
                O, voi, anime pietose, o, voi, cuori dolenti,
Vedendo che questi amanti l’un per l’altro muiono,
È mai possibile che pietà non abbiate,
Sospiri, pianto per il miserando loro stato?
Osate ordunque, che l’amore ognor dispensa,
Come un padrone, con dolore, anche discordia, e clemenza concede.
                Senza indugio con quell’esortazione colma di bontà,
A loro si è avvicinato e, soffiando salute,
Alla loro vita li ha riportati, di felicità li ha colmati,
Gli ha dato il suo dono più grande: un eterno amore
E gli ha detto: “Basta lusinghe, basta sventure
Ché, lottando con me, vi ha arso fuoco più forte.
Mortali, ancor non sapete che il mio potere si spinge
Oltre il cielo, oltre l’aria e tutto il mondo comprende?”
Allora, come dal sonno della morte, sollevandosi Zulnia,
Ché per le donne sempre il dolore è più vivo,
E sentendosi dall’amore animata,
Ornato con lacrime di gioia il volto,
Accanto all’amato Ikanok sotto un albero alto e grande
Ha ricevuto il giuramento di un amore che fine non ha.
E per ricordare nei secoli quest’evento,
Sull’albero hanno scolpito questo motto:
“O viandante, non passare, leggi e sappi,
Che l’amore il più tenace dall’amicizia nasce!”

(C. Conachi, Amoriul din prieteşug, în Id., Scrieri alese, Ediţie, prefaţă, glosar şi bibliografie de E. şi Al. Teodorescu, Editura pentru Literatură, Bucureşti, 1963, pp. 165-171)

 
ultimo aggiornamento: 29-Mar-2007
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